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Sigur Rós live Mantova

Lo show è andato ben oltre l’ormai limitata definizione di concerto

Bastano dodici composizioni agli islandesi Sigur Rós per trasfigurare piazza Sordello, sede del Mantova Summer Festival, e far vivere al pubblico presente una vera esperienza musicale. Per il 13 luglio, infatti, ma questo credo sia valido anche per le altre due date del mini tour italiano, non si può parlare di un semplice concerto, se con questa parola riduciamo lo spettro a quello che oggi è il modo di fruire la musica. Qui, infatti, non ci sono state vere canzoni; alcune delle composizioni proposte neppure hanno un vero titolo. Lo show dei Sigur Rós, dunque, è andato ben oltre l’ormai limitata definizione di concerto. Anzi, grazie anche alla loro proposta musicale, questa esperienza collettiva è destinata a mutare. Jónsi, Georg Holm e Kjartan Sveinsson regalano, nel corso della serata mantovana, varie esperienze, fra le quali quella sonora, quella visiva e, per chi c’è riuscito, quella della sospensione del tempo.

La prima parte dello spettacolo è stata decisamente più votata all’introspezione; una ricerca dentro di noi, messa però in musica, dove i suoni, meno dissonanti, hanno catturato più la mente, che il cuore e la pancia. Nella seconda parte, poi, c’è stato il crescendo, con l’aumento delle distorsioni e delle dissonanze, per arrivare, nel finale, alla parte più energica e tribale dell’esperienza. Un geyser, dunque, che è esploso liberando energia. Di fatto, dunque, un orgasmo capace di liberare forza animalesca, e cioè puro piacere, senza mediazione alcuna. Il tutto grazie alla materializzazione della sospensione del tempo, e il conseguente ritorno alla realtà, che non è stato facile. Per nessuno. Grazia direi, più che grazie. Uno stato di vera grazia ha fatto defluire lentamente un pubblico che, a più riprese, chiedeva un bis, più per non andar via che, in realtà, per sentire altro.

Sarà il fascino di saperli islandesi, Stato fra i più misteriosi tra quelli Europei; sarà che parlano e cantano in una lingua che pochi capiscono, con suoni che sono sconosciuti; sarà che quei suoni rimandano ai paesaggi che, nei documentari, sanno di vulcano, lava, ghiaccio e geyser; sarà che, per questi ultimi motivi, tutto appare figlio delle pagine di Philip K. Dick, e cioè di un futuro onirico, contaminato e ricco di misticismo; sarà tutto questo, e altro ancora, ma l’esperienza musicale vissuta a Mantova è stata capace di entrare nell’anima, o chiamatela come volete, e cioè coscienza, vita interiore, mente. Non è un problema… perché ciò che conta è che quella musica è stata un flusso letteralmente offerto al pubblico.

Una volta messi in circolazioni questi suoni sono stati assorbiti, non ascoltati, dal pubblico. Tanto che, causa un imprevisto legato alle corde del basso di Sting, mi sono distratto qualche minuto. In quel momento mi sono accorto che ero fuori dal flusso. Ero scollegato. Tutto sembrava solo semplice rumore, a volume sostenuto. È stato come essere buttato fuori, all’improvviso, da una stanza buia. Una sensazione pura di spaesamento. Alla Sartre, quando tratta della porta che sbatte, mentre siamo in casa da soli, intenti a fare altro, e con quell’evento, tutto il mondo cambia senso e dimensione. Per rientrare nel flusso è stato necessario riconnettersi, come in “Avatar”, al tutto: cielo, caldo, spazio, musica, fumo e colori.

Un tutto, insomma, che ha richiesto molta attenzione, perché lo show, lette le cronache dei giorni precedenti, sembrava fosse progettato per far dispetto al pubblico: poca luce, tanto fumo, e la band che non si faceva vedere. Sembra essere la moda di questa estate, da Dylan a scendere. Invece, come spesso accade, le cronache, forse, si sono fermate alla prima composizione – che in tutte e tre le serate è stata “Glósóli” – e non sono andate oltre. Il palco non era affatto buio. Il fumo non ha impedito la vista di nulla e di nessuno.

L’esperienza è stata multisensoriale, e cioè vista e udito, perché i colori, e l’attento gioco di luci, erano necessari per entrare nel flusso. Il rosso dominante delle figure che si animano, come matrici digitali, alle spalle della band su “Untitled #1 – Vaka”, erano determinanti per entrare nel mood di un album, uscito nel 2002, e che ha appena festeggiato 20 anni con un’ottima edizione deluxe, e che è stata la colonna vertebrale di quest’esperienza. Spoilero subito, il finale affidato a “Untitled #8 – Popplagið”, è stato un crescendo pari solo, non me ne voglia nessuno, alla chiusura di “The Dark Side Of The Moon”. Là c’era il cuore che pulsava, a chiudere il cerchio; qui i forti colpi sui tamburi, con una chitarra distorta che è  stata pura bellezza sonora.

Ed è chiaro che il gruppo islandese sta andando, come sempre, contro tutti e contro tutto, e cioè contro il Post-Rock, genere che li ha incasellati per alcuni anni; contro l’Elettronica di frontiera; contro la sperimentazione. Il tutto per andare, ormai, verso quello che i Muse avevano cercato di fare, prima di votarsi ad altro, e che i Radiohead hanno toccato, leggermente, in album come “Ok Computer” e, soprattutto, “Amnesiac”: musica colta. Altresì detta, musica classica contemporanea.

La scelta di usare la voce come strumento è uno dei punti di forza di Jónsi, fatto che, oggi, trova buoni epigoni anche nel Belpaese, e genera quello straniamento che proietta fuori dal tempo. “Svefn-g-englar” è l’esempio perfetto. Musica, con attacco quasi ambient (ma solo per pochi secondi), poi le luci che si accendono al ritmo di un “tinck”, ripetuto a oltranza, che sembra l’ecoscandaglio dei sommergibili. Il tutto con un crescendo dove gli strumenti diventano, inseguendosi, un unico suono armonico che nasce da un apparente caos sonoro. Il seguito, e cioè “Ekki múkk”, è uno dei momenti migliori della serata, perché la fusione di immagini sgranate con il suono di un vecchio vinile, come avesse dei graffi mentre gira a vuoto, sul giradischi, rimette i sensi del pubblico sull’attenti, prima di scendere nuovamente nelle profondità di quell’oceano che è stato scandagliato nel pezzo precedente.

Purtroppo, come già detto, esco dal flusso, sul brano che più attendo, e cioè “Ylur”, composizione del nuovo lavoro “Atta”, e non mi godo quella musica che, come nel disco, è senza batteria. Non che fino a ora abbia avuto una parte rilevante nello show, ma comunque c’è, e non manca, quando serve, di farsi sentire. Qui, invece, è completamente assente, come d’altronde chi scrive.

“Ný batterí” segna il ritorno nel flusso, grazie a un gioco acido di immagini, e alla voce che lavora come una cantilena di matrice religiosa: ripetitiva e ossessiva. Jónsi, in questa fase, sembra davvero il miglior Tom Yorke dei tempi d’oro di “Amnesiac”. Si va verso il finale, perché ogni composizione supera ampiamente i 10 minuti complessivi di suono. La scansione finale è dettata dal ritmo delle sonorità dell’album del 2002, e di altri pezzi dei primi lavori. “Untitled #6 – E-Bow” e “Sæglópur” stanno proprio bene insieme, e sembrano una lunga suite all’interno dello spettacolo.

“Untitled #7 – Dauðalagið” e “Festival”, a volerle ridurre in qualche modo così, sono la parte più (post) rock dello show, con la chitarra che viene letteralmente martirizzata dall’archetto di Jónsi. Come le frecce in San Sebastiano, così i colpi d’archetto rendono martire quella chitarra che, però, regala una forza musicale quasi primitiva. Così, per la prima volta, capisco bene perché Paolo Giordano conclude il suo romanzo “Divorare il cielo” proprio in Islanda, fra caverne e antri, che sono il cuore primitivo del Mondo. Qui il protagonista del libro ritrova la necessaria energia generativa e, allo stesso tempo, creativa, che si trova fossilizzata nelle rocce vulcaniche, ma che è viva e attiva se la si vuole sentire, ascoltare, vivere. La chitarra di Jónsi, nei due pezzi in questione, è esattamente capace di rendere sonora la pura energia selvaggia, la forza generativa del Mondo.

Come lo sarà, ma lo abbiamo già anticipato, in “Untitled #8 – Popplagið”. Qui si aggiungono poi anche i colpi dei tamburi, quasi a richiamare quell’Africa da dove tutta la civiltà ha tratto origine. Vitalità, forza ed energia, ed è normale, dunque, che nessuno voglia che tutto questo finisca. Si deve tornare nella realtà. Non è facile. Nessuno lo vuole. C’è pure chi, per godere a pieno di tutto questo, scende, si mette sui sassi di piazza Sordello, e si corica a pancia in su, a guardare il cielo. Senza dubbio, è la scelta migliore per il mal di schiena del giorno dopo, ma anche per far entrare in tutti i pori della pelle questa esperienza sonora.

Fanno bene i Sigur Rós a non concedere bis. Il flusso si è interrotto, e non si può riprendere solo per salutare un pubblico che, alla fine, si ritrova piacevolmente straniato nello spazio tempo della piazza, dopo quasi un’ora e quarantacinque minuti di sospensione.

Non sarà la stessa cosa, ma su Spotify c’è la playlist “Live a Mantova”, quanto meno per assaporare quello di cui ho cercato, fin dove mi è stato possibile, di raccontare.

Articolo di Luca Cremonesi, foto di Roberto Fontana

Set list Sigur Rós 13 luglio 2023  Mantova

  1. Glósóli
  2. Untitled #1 – Vaka
  3. Svefn-g-englar
  4. Ekki múkk
  5. Ylur
  6. Ný batterí
  7. Untitled #6 – E-Bow
  8. Sæglópur
  9. Untitled #7 – Dauðalagið
  10. Festival
  11. Kveikur
  12. Untitled #8 – Popplagið
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