
Lunedì: quanti di noi non possono soffrire questo sostantivo, che ci riporta per forza ai nostri doveri, allo studio, al lavoro, dopo magari un fine settimana divertente e spensierato. Ve lo dico io come superare questo piccolo trauma settimanale: un concerto coi fiocchi di casa Hellfire, e passano tutte le paure. 24 marzo, Milano, Legend Club: ecco dove passeremo il nostro lunedì sera, e se è vero che un concerto di questo calibro non è molto comune in questo giorno della settimana, altrettanto vero è che ci darà la giusta sferzata di vita per affrontare tutto il resto. Al mio arrivo, la situazione davanti alle porte è tranquilla, e lo rimarrà fino all’apertura: stasera il Legend non sarà preso d’assalto come di consueto, è facile conquistare la transenna, ma tutti coloro che sono con me renderanno la serata rovente e movimentata come nelle date sold out. Quando si dice che la qualità fa la differenza.
Siamo accolti, in sala, dalla presenza sul palco della magnifica batteria degli headliner, talmente grande e complessa da troneggiare proprio in mezzo allo stage, ammiccante nella sua livrea lucida. Strobo e fari sonnecchiano ancora, ma sembrano farci l’occhiolino: stasera si supereranno, inondando il Legend di lampi di luce bianca e colorata, mentre la fog machine avrà pietà delle nostre macchine fotografiche e non ci immergerà nella nebbia lattea, un evento di cui fare tesoro.

Anche l’attesa per l’inizio dei live è più breve del solito: puntuali sulla tabella di marcia, ecco i The Innocent, giovanissima formazione heavy rock modenese che vede le proprie origini in un progetto nato nel 2016, chiamato “School Of Rock”, che ha lo scopo di creare e formare nuove giovani band, e che fa stasera il suo battesimo del Legend. Non è facile, e a loro va tutta la mia stima, aprire un concerto per altre due band di grande carisma ed esperienza, con tutto il batticuore del caso, davanti a una sala ancora semivuota, vuoi per l’ora, vuoi per il giorno, vuoi che molti arriveranno giusti giusti per l’headliner. Non è facile esibirsi quando il pubblico è un po’ timido e resta a osservarti anziché buttare benzina sul fuoco, ma questi ragazzi, col sorriso, la freschezza e il vigore dei loro verdissimi anni, ci mettono tutto il cuore, l’innegabile potenzialità e la passione che li muove e li anima.

Il loro curriculum vede partecipazioni a vari contest e anche alle selezioni di Area Sanremo, il concorso che qualifica gli artisti emergenti a partecipare alla sezione “Giovani”, nel 2020. La formazione cambia, si evolve negli anni fino a quella attuale, che ha l’obiettivo di creare musica originale e di rendere la loro carriera artistica una realtà professionale. Le carte in regola, per imparare a stare a galla nello spietato panorama musicale moderno, le hanno tutte; non dovranno mai stancarsi di giocarle al momento giusto, né perdere la voglia di mettersi in gioco, di osare, di rischiare, di combattere.

I loro testi, specialmente quelli degli esordi, esprimono sentimenti trasparenti, genuini, un richiamo all’innocenza da cui traggono il nome; nella scaletta ci propongono anche il loro ultimo singolo, “Concentus”, rabbiosamente urlato con l’intento di svegliarci dal torpore, un sapiente miscela di Gothic e Prog, un brano che invita a riflettere sulle proprie zone d’ombra interiori, sull’eterna lotta con i propri demoni.

Molto carismatico il frontman Mattia Madonna, che non si stanca di interagire e cercare un legame con i presenti, chiamando il circle pit, mettendo a nudo le proprie sensazioni sul palco. Una giovane band che merita di fare strada, che possiamo ascoltare e conoscere sulle piattaforme e che aspettiamo, in un prossimo futuro, di rivedere magari sullo stesso palco davanti al popolo del Legend.

Il cambio set per la seconda band è relativamente rapido, e la calda accoglienza che i fan riservano ai Disconnected mi lascia intendere che in molti li conoscevano già e anzi, aspettavano proprio di vederli.
Gruppo modern metal d’Oltralpe fondato nel 2016, con influenze che vanno dai Gojira agli Avenged Sevenfold fino agli Alter Bridge e una reputazione a dir poco selvaggia, il loro ingresso fa accalcare tutti in transenna, e fin dai primi minuti è chiaro che questi ragazzi sono una proposta coi fiocchi e controfiocchi, forti di un frontman estremamente carismatico come Ivan Pavlakovic, che si rivolge a noi anche in italiano e che in pochi secondi fa suo il palco, i presenti e tutto quel che gira attorno, insieme ai suoi musicisti che si aggirano per prendere a martellate sonore specialmente chi sta in transenna.

Micidiale la loro backline, micidiale le capacità vocali del vocalist, che ringhia e si dimena a pochi centimetri dal mio naso: se uno dei due si sposta di qualche centimetro ed entro in collisione con lui, mi apre la testa in due, rabbrividisco mentre lo osservo scapocciare con una foga tale da percepire gli spostamenti d’aria. Questa band ha messo in scena uno dei migliori set che io abbia mai visto come gruppo di supporto, e sarei davvero curiosa e felice di vederli come headliner; per molti delle persone presenti stasera potrebbero essere una novità assoluta, ma hanno conquistato un esercito di nuovi fan.

Non oso immaginare come potrebbero sfogarsi su un palco di grandi dimensioni, magari di un festival estivo, loro che si muovono come leoni furiosi attraverso il set e che hanno evidente bisogno di ampi spazi per “respirare” ed esprimersi con la loro dinamica fisicità; il frontman in particolare sfodera una quantità di adrenalina e argento vivo che, se fosse possibile, potremmo imbottigliare e vendere al mercato. Dopo una manciata di minuti gronda sudore come nelle code in tangenziale d’agosto.

In scaletta, molti brani sono tratti dal loro secondo album “We Are Disconnected” rilasciato il 1 aprile 2022; abbiamo “Life Will Always Find Its Way”, dove le due chitarre di Florian Merindol e Adrian Martinot emergono dalle ombre, crescendo fino a una raffica di tamburi che arriva tuonando e colpendoci come uno schiaffo in pieno volto, mentre Ivan al microfono passa senza soluzione di continuità dal clean al growl con una furia controllata a stento, sempre in procinto di liberarsi e asfaltarci tutti come una palla incandescente. Gli stili dual vocals, così evidenti nel sottogenere metal moderno, completano perfettamente il sound della band: la luce e l’oscurità, il bene e il male, lo ying e lo yang.

“I Fall Again” aggiunge una magica pozione a base di vibrazioni misteriose, fin quasi mistiche, uno tsunami di riff e percussioni irrorate da melodie che danno origine a un mix inebriante: non esiste essere vivente in sala che non si dimeni in qualche modo. Ci osserviamo l’uno con l’altro, innamorati dei Disconnected, che hanno un approccio estremamente interattivo col pubblico e amano farsi ritrarre, collaborando coi fotografi: a un certo punto mi ritrovo l’indomabile vocalist chino su di me, a cantare davanti al mio naso, a distanza praticamente zero. Lui sorride divertito, mentre io arrossisco fino alla punta dei capelli. A completare l’opera, poco dopo, ecco arrivare il chitarrista Merindol a prendere a linguacce e smorfie la mia lente.

Prima di terminare trionfalmente col recentissimo singolo “We Carry On”, Ivan Pavlakovic si assicura di urlarci l’invito a incontrare la band in area merch dopo il concerto, so you can also buy some of our shit, e che cazzo! “We Carry On”, dicevo, è il nuovo singolo mixato e masterizzato da Jacob Hansen (vi dicono niente nomi come Amaranthe? Epica? ) e rappresenta il motto dei Disconnected, uno stile di essere qualunque sia la situazione, e mette in bella mostra moderni e pesanti riff djenty, con parti vocali molto versatili, che poi sono sempre state il marchio di fabbrica della band. Una canzone da guerra, pesante, brutale, ma così orecchiabile allo stesso tempo, con un ritornello che continua a frullare nel cervello molto a lungo.

Vederli andare via, madidi di sudore, spettinati e trionfali, è davvero un dispiacere, ma ci consoliamo in fretta perché siamo arrivati al bocconcino goloso che stavamo aspettando tutti, inutile fare finta di no.
Sul palco adesso c’è fermento di roadie che preparano tutto alla perfezione, verificano la grande batteria, accordano chitarre, e preparano in disparte un angolo bar dove gli artisti possono rinfrescarsi quando e se lo desiderano. Seppur non a pieno carico, ora la sala è sicuramente più affollata, qualcuno è arrivato anche dall’estero per l’unica data italiana dei The Raven Age, band heavy metal / hard rock londinese sui palchi più prestigiosi dal 2009, nata dai chitarristi Dan Wright e George Harris. Esatto, proprio quel Harris: abbiamo del sangue blu tra noi, George è figlio del mitico Steve Harris, bassista degli Iron Maiden, un pedigree prestigioso e un talento scritto nel DNA.

Svariati singoli e tre album in studio per loro, l’ultimo dei quali, “Blood Omen” è uscito il 7 luglio 2023, il loro primo lavoro con Music For Nations / Sony Music. Uno dei fenomeni più stuzzicanti di Metal moderno del Regno Unito, hanno collezionato oltre 400 concerti in 38 Paesi, presenze al Wacken e all’Hellfest tanto per citarne alcune, tour di supporto a Mastodon, Opeth, Gojira, Anthrax, Killswitch Engage, agli stessi Iron Maiden a San Siro nel 2018.

Se esistesse un premio per la tenacia, sicuramente questi ragazzi ne avrebbero una bacheca piena zeppa: se c’è uno slot di supporto da riempire, state pur certi che loro lo riempiranno, ed è più semplice elencare le band con cui non sono stati in tour che quelle con cui sono stati. Meriterebbero applausi fino a scorticarsi le mani per la loro determinazione e la loro ostinata incapacità di rinunciare ai loro sogni.

Nella loro ricerca di andare oltre l’essere semplicemente “la band del figlio di Steve Harris”, hanno sperimentato numerosi look e stili musicali; stasera si presentano sul palco del Legend, che ovviamente hanno già calcato in precedenza, con un’estetica alla Black Veil Brides, con la pelle tinta di nero, che richiama anche un po’ i corvi citati nel loro nome. Il materiale che ci presenteranno stasera, tratto dalla loro discografia, è ben rifinito e prodotto in maniera impeccabile.

Mentre i loro colli anneriti li fanno sembrare più metalcore che altro, la musica richiama i White Lion, i Mr. Big; ampliando e ammorbidendo il loro sound, saldamente radicato nel Metal Melodico, gli hanno conferito una lucentezza e un ritmo che è impossibile non seguire battendo il piede, scapocciando, o quasi lanciandosi al di là della transenna come ho visto fare ad alcuni devotissimi fan.

Tommy Gentry, biondo chitarrista rientrato in scuderia nel 2022, macina ovviamente la maggior parte del lavoro heavy, e sembra verosimile che il suo ritorno abbia restituito alla band un ulteriore slancio. Dal momento in cui i The Raven Age fanno il loro ingresso, accolti da un boato degno di un’arena, tutti gli occhi sono fissi sul palco mentre snocciolano un banger dopo l’altro; la scaletta è una raccolta di tracce attentamente studiata per tenere tutti sulle spine prima, e per farli cantare a squarciagola poi. L’energia è molto, molto contagiosa, ogni brano viene festeggiato con approvazione estatica, mani tese, occhi lucidi e testi conosciuti a memoria.

Con le luci che diventano di un azzurro / blu, si urla tutti insieme sulle note di “The Day The World Stood Still”, tratto da “Conspiracy” del 2017, un brano dal riff incisivo e le cui energie sismiche riecheggiano ovunque nella sala. Fondamentalmente heavy, ma la capacità della band di arrivare anche a livelli quasi acustici è sbalorditiva. La voce potente di Matt James, che si china spesso sui fan delle prima fila, e che passa sulle loro teste il microfono con l’asta che s’illumina di rosso, è sostenuta dai ritmi di batteria di Jai Patel, seduto sul suo trono dietro la mastodontica batteria.

Vocalist affermato, sicuro di sé, mi ricorda un po’ Stu Block degli Iced Heart; sebbene non possegga la gamma vocale di cui è capace Block, intreccia emozioni e melodie nelle canzoni con forza e convinzione più o meno allo stesso modo. Carattere e profondità sono forniti generosamente dalla collaborazione a sei corde di Gentry e Harris, che ci osserva uno per uno negli occhi, a testa alta, orgoglioso del sangue che gli scorre nelle vene. Dad would be proud, anche se è il basso di Matt Cox, che ringhia e rimbomba facendo vibrare anche i muri, a rendere un vero omaggio a un certo Harris senior, aggiungendo atmosfere profonde ai brani. Good evening, Milano! It’s great to be back! Esclama James mentre il pubblico se lo mangia con gli occhi, We’ve missed this! Let’s raise the roof! E il tetto, vi posso assicurare, lo fanno saltare per davvero.

“Angel In Disgrace” è un assalto di batteria a tutto campo che rimbomba assieme ai battiti cardiaci, con Harris che, in alto sulla pedana, guida appagato gli applausi e i cori dei fan. James è l’unico membro a interagire attivamente col pubblico, parlando, cantando avvicinandosi ai loro volti, ma nessuno della band tenterà il contatto fisico di una stretta di mano, per esempio; da parte loro, i fan li invocano come una benedizione guardandoli da sotto in su, in preda all’estasi. Sempre da “Conspiracy” è tratto il brano “Grave Of The Fireflies”, basato sull’omonimo e toccante film d’animazione dello Studio Ghibli. Una canzone tanto emozionante quanto il film stesso, chi l’ha visto sa di cosa sto parlando, e ritrae efficacemente la disperazione e l’inutilità della guerra nella sua indicibile sofferenza umana.

Visibilmente emozionato, James ci chiede di accendere le torce dei cellulari, ma diamine, quanto sarebbero state belle le fiamme degli accendini, adesso, penso io, e di alzarli in aria: Show me the fireflies are alive. Avanti così, col cantante che ci osserva assorto, e Harris che insieme a Gentry martellano e strapazzano i nostri sensi tra le loro corde e loro dita. Essendo la scaletta ricca, le canzoni scorrono una dopo l’altra senza troppo perder tempo, e la chiusura di questa unica data italiana è “Fleur De Lis”, un punto fermo live in molti tour, che scioglie il pubblico in una litania di grida e struggimenti.

Allacciatevi le cinture, perché è veloce: i beat, i riff, o tutto o niente, i The Raven Age non fanno sconti.
Altrettanto inesorabilmente si arriva alla fine del viaggio, un concerto che ci ha fatto dimenticare il lunedì e qualunque altra cosa, direi io. Scordatevi plateali lanci di plettri a mo’ di pastura, i The Raven Age sono eleganti: solo Matt Cox mette il suo plettro direttamente nella mano della fan alla mia destra, mentre il batterista dona la sua bacchetta alla mia sinistra.

Come recita il titolo di uno dei loro successi, “The Day The World Stood Still”: questa sera il mondo si è fermato, per il tempo di un concerto assurdamente perfetto, chi c’era sa, e chi non c’era beh, non sa cosa si è perso. Anche se era di lunedì.
Articolo e foto di Simona Isonni
Set list The Raven Age Milano 24 marzo 2025
- The Guillotine
- Promised Land
- Forgive And Forget
- Nostradamus
- Surrogate
- The Face That Launched
- Scimitar
- The Day The World Stood Still
- Essence Of Time
- The Journey
- Seventh Heaven
- Angel In Disgrace
- Serpents Tongue
- Grave Of The Fireflies
- Fleur De Lis