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Vinicio Capossela live Vicenza

Sul palco la riproposta dei primi lavori fatta e messa in scena con i musicisti dell’epoca

Vinicio Capossela foto_RobertoFontana2022

Il Festival della Bellezza fa tappa a Vicenza nel Teatro del Palladio il 24 giugno con il concerto “Round One Thirty Five” di Vinicio Capossela. Quando scoppiò la pandemia, Capossela era in tour con l’album “Ballate per uomini e bestie”, uno spettacolo ben costruito e con un’anima politica che il cantautore nato in Germania ad Hannover non aveva mai palesato in modo così evidente. Dopo una manciata di date quel tour fu interrotto e Capossela fu costretto in casa, come tutti noi d’altronde. Dal suo cilindro, però, ha estratto non solo dirette e concerti online, ma anche nuovi progetti musicali che, in questi anni di Covid, lo hanno visto salire sul palco in versione minimale, nel 2020, con il solo polistrumentista Vincenzo Vasi e, nel 2021, portare in giro per lo Stivale uno spettacolo dedicato a Dante che meriterebbe di finire inciso e proposto in video, per essere utilizzato come avvicinamento al mondo letterario e umano del Sommo Poeta. La ripartenza lo vede ora impegnato in due progetti dal vivo e cioè “Bestiario d’amor” e questa riproposta dei primi lavori fatta e messa in scena con i musicisti dell’epoca.

Diciamola così, questo è il concerto che i puristi caposseliani desiderano da tempo. L’esibizione vecchia maniera, senza orpelli e macchine sonore; senza ricerche e musicisti virtuosi o maestri del suono. Un Vinicio, rispetto all’attuale, puro, nudo di madre insomma. Il Vinicio scoperto e prodotto dall’entourage di Guccini sul finire degli anni ’80 e arrivato sulle scene con l’album “All’una trentacinque circa”. Per capirci, il Capossela jazz che lo avvicinava a essere l’erede designato di Paolo Conte e, più in generale, di una stagione magica, quella del cantautorato d’autore figlio di Dylan, Brassens e Cohen. Più nel dettaglio ancora, lo spettacolo che tutti vorrebbero rivedere, quello che mette in scena “All’una e trentacinque circa”, “Modì” e “Camera sud”, trittico d’esordio dove Capossela era conosciuto nel circuito di piccoli club, piano bar, sale da concerto di circoli e associazioni, teatri secondari di paese. Verrebbe da dire il Capossela underground insomma. Quella stagione che si chiude e si interrompe con l’exploit di “Che cos’è l’amor”, inserita nella colonna sonora di “Tre uomini e una gamba” e, poi, con il radicale primo cambio di rotta che è “Il ballo di San Vito” e, soprattutto, “Canzoni a Manovella”.

Per ricreare quella situazione Capossela affida gli arrangiamenti a un gigante vero, e cioè quell’Antonio Marangolo che, per anni, ha suonato, fra gli altri, con Francesco Guccini, Claudio Lolli, Sergio Endrigo e Paolo Conte, ed è considerato uno dei più importanti compositori, arrangiatori e sassofonisti di casa nostra. Con lui a portare in giro queste canzoni degli anni ’90 ci sono Marco Mariani alla batteria, Enrico Lazzarini al contrabbasso e Giancarlo Bianchetti alla chitarra. Quattro musicisti, con l’aggiunta di Capossela al pianoforte, chitarra, fisarmonica e voce, per un allestimento minimale e semplice che ha il compito di far rivivere quelle canzoni, quella stagione e quegli inizi. Il tutto funziona bene, non c’è che dire. Anzi, gli arrangiamenti di Marangolo mantengono intatta l’essenza pur migliorando alcune esecuzioni che erano ormai stantie. Tuttavia, e lo vedremo nel finale, l’operazione ottima è anche però destinata a far comprendere come quel Vinicio lì di fine anni ’90 non esista più perché ora abbiamo un artista molto più completo e complesso, articolato e poliedrico che, sicuramente, con quei panni del passato veste stretto.

Il concerto vive di due valori aggiunti, uno contingente, e cioè la splendida location neoclassica del Teatro del Palladio, e l’altra granita, e cioè il sax in primo piano – non solo visivo – di Marangolo che, di fatto, è l’ossatura portante di questa operazione. La batteria sarà quasi sempre spatolata, mentre le chitarre sono tappetino ben fatto che non emerge se non nelle ultime due canzoni che, però, non sono figlie di quegli anni ’90 che si stanno celebrando.

“Ariosto governatore” è composizione giovane, novella, scritta e messa in circolo pochi mesi fa; mentre “La notte di San Giovanni” arriva dal doppio “Canzoni della cupa” del 2016. Qui Bianchetti, che ha suonato con Vinicio dal 1995 al 2004, fa sentire le sue doti che, fino a quel momento, sono come di supporto all’ensemble, ma non sono strutturali a questo sound. Diversa la questione per Marangolo, vero mattatore che, pur se nella sua concentrazione e severità, si lascia però andare e trascinare sul finale. In ogni caso, regala, nel corso della serata, accompagnamenti di sassofono davvero pregevoli e che valorizzano e impreziosiscono le canzoni degli inizi di Capossela.

La scelta è quella, sapiente, di non fare come tutti gli altri e, dunque, eseguire gli album in modo integrale. La cosa piace, ma non sempre ha senso. In questo progetto siamo nella seconda situazione perché Vinicio, da sempre, ama mettere le mani sul suo repertorio. Non lo stravolge alla Dylan, ma neppure lo ripropone pari pari come fotocopia dell’album originale. C’è sempre, nei suoi concerti, una narrazione da seguire e inseguire, da strutturare e da consolidare, o da ricercare nelle canzoni o nella loro genesi. Anche questo show – pur se Vinicio parla molto meno del solito – non è da meno. Il Jazz, musica e mondo disgraziati dove ci deve aiutare a vicenda, gli amori del passato, e quando a 24 anni canti degli amore del passato sei già nato vecchio, gli albori della carriera, si deve partire non dal basso, ma dal contrabbasso del mio compare Lazzarini, i bar e la nostalgia sono le trame che fanno da collante ai racconti e alle canzoni proposte nella serata. Nulla a che vedere con l’uomo vivo, il mare, il rebetiko e la patafisica, la tradizione popolare e la taranta, uomini e bestie metafore della società contemporanea.

Tutto questo deve ancora venire e accadere nei tre primi lavori e, soprattutto, è stato messo a tacere in questo concerto. Qui canta un Vinicio che doveva essere circondato dal fumo, dal grigio colore di abiti di musicisti da romanzo francese, dal sound e dal mood parigino alla Woody Allen, senza battute e con poca ironia (nelle canzoni, ovvio) e, soprattutto, dalla nostalgia. Pensare uno show senza “Marajà” ha dell’incredibile, eppure… Se si ascoltano i primi tre album si notano come dominanti le tinte cupe. Tuttavia, Marangolo mette mano alla musica per non renderla così greve come un coperchio che pesa sulla testa di ogni spettatore: toglie il fumo, sceglie altri quartieri parigini, senza allontanarsi troppo dal centro; aggiunge percussioni semplici, come campanelli e tamburelli; detta il ritmo con il sax e rende il tutto leggermente meno nostalgico, meno greve. L’effetto è buono, non c’è che dire. Anzi, ottimo e molto piacevole. C’è pure chi accenna a ballare, nelle retrovie.

E così le prime otto canzoni sono tutte estratte da “All’una e trentacinque circa”, alcune delle quali sono vere perle come “Suite delle quattro ruote” e “I vecchi amori”. Toglietevi dalla mente, per le altre, l’effetto “Live in Volvo”, il lavoro che chiudeva quella stagione, con la raccolta “L’indispensabile”. Anche la prima esecuzione di “All’una e trentacinque circa”, con il famoso ritornello dedicato al buon bere, e cioè Chimay, Bacardi Jamaican rhum, White Lady, Beck’s beer, Tequila bum bum, Dry Gin, Charrington, Four Roses Bourbon, il tutto cantato in coppia, come sostegno vocale con Marangolo, è tenuta a freno. Diversa, invece, sarà l’esecuzione nel bis, dove la canzone diventa inno di gioia con tre voci e ritmo, direbbe il poeta, hammering, e cioè martellante.

Chiusa la parentesi degli esordi si passa ai due lavori già più strutturati, ma figli ancora di quella fase poetica di posizionamento. Da “Modi”, album da sempre ai margini nei live recenti (ma recuperato nell’omaggio a Dante), Capossela esegue “Ultimo amore”, classico che non manca quasi mai, e “La regina del Florida”, che viene presentata come una canzone dal ritmo latino, e che diventa invece un brano che si adatta bene alle donne raccontate da Simenon: hanno ritmo, ma raramente sono protagoniste della vicenda. Il resto, invece, è dominato da “Camera Sud”, album che segna la chiusura di questa stagione e del quale Capossela & co. eseguono quattro brani con queste caratteristiche fumose e nostalgiche, fra i quali le bellissime “Amburgo” e “Il mio amico ingrato”, canzoni davvero rare nelle ultime scalette.

Mancheranno quei brani che iniziavano a far capire che Capossela stava stretto in quegli abiti di un Guccini innestato con Paolo Conte. Tom Waits ormai premeva e con lui tutta una creatività che non poteva essere figlia solo del piano bar e del Jazz. La letteratura, poi, stava ispirando quasi più della vita vissuta e il Minotauro, così come la balena, erano pronti ad emergere dal labirinto e dagli abissi del mare. Certo, “Che cos’è l’amor” non poteva mancare, ma sarà posizionata nei bis, dove tutto è concesso, come accade con l’ultima pallina nel calciobalilla.

Le incursioni nel dopo – e cioè gli anni 2000 – fanno capire che questo spettacolo non vuole in nessun modo uscire da quel solco. È un omaggio a un Vinicio che non c’è più; che è stato e che si è evoluto, diventando prima farfalla e poi ape capace di impollinare ogni genere incontrato. “Con una rosa” e “Pryntyl” arrivano da “Canzoni a Manovella” e da “Marinai, profeti e balene”, ma della poetica e della sonorità di quei due album geniali e innovativi non c’è traccia. Anzi, in quei lavori queste tracce erano l’àncora con il passato o meglio, la pallina di pane per far trovare una strada che, i più, erano restii ad accettare. La via nuova, per paura ovviamente di quello che si poteva trovare, non piaceva e portava verso canzoni che non si potevano cantare ma si dovevano ascoltare. Oppure, cantare sì, ma sarebbe diventato sempre più complesso e faticoso tenere a mente il testo.

Lo spettacolo si chiude con la nuova “Ariosto governatore” che rende evidente come non solo la musica di Capossela sia ormai altra cosa da quello che si è sentito, e abbia percorso strade che lo hanno trasformato come uomo e musicista, ma anche che la sua scrittura si è profondamente modificata per diventare altro da quella stagione appena celebrata. “Ariosto governatore” è l’occasione per ricordare, allo stesso tempo, la bellezza del Teatro del Palladio e come un tempo i ricchi sapessero spendere bene la loro ricchezza… oggi invece tutto serve per celebrare solo se stessi. “La notte di san Giovanni” apre la strada a qualcosa che non verrà. È quell’uscir a riveder le stelle che non è affatto liberatorio. Il Vinicio Capossela che c’è ora parte da quel passato e (ri)partirebbe da quella notte di San Giovanni che, ricorda lo stesso cantautore, è magica perché benedice e trasforma. Il battesimo è pronto e si chiude la serata con due bis, già citati, che raccontano la fine di una stagione e l’apertura di un altro percorso che, ad oggi, non si è ancora concluso.

Articolo di Luca Cremonesi, foto di Roberto Fontana

Set list Vinicio Capossela Vicenza 24 giugno 2022

  1. Resta con me
  2. Stanco e perduto
  3. Suite delle quattro ruote
  4. Scivola vai via
  5. Pongo sbronzo
  6. I vecchi amori
  7. Una giornata senza pretese
  8. All’una e trentacinque circa
  9. Il mio amico ingrato
  10. La regina del Florida
  11. Ultimo amore
  12. Non è l’amore che va via
  13. Amburgo
  14. Camera sud
  15. Estate
  16. Con una rosa
  17. Pryntyl
  18. Ariosto governatore
  19. La notte di San Giovanni
  20. Che cos’è l’amor
  21. All’una e trentacinque circa

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