Sole implacabile e fan in coda con più di due ore d’anticipo, il 25 luglio Milano assomiglia a una piccola California: trionfa abbigliamento easy, da skater, bermuda e cappellini da baseball, Vans in quantità tale da far vergognare le mie All Star, pettinature punk colorate e tatuaggi come se non ci fosse un domani. Ci manca solo Huntington Beach per surfare e poi ci siamo davvero tutti. Una volta entrata in sala, alcuni dettagli mi rendono un po’ inquieta: sul palco, pronto per i gruppi spalla, è già presente tutta la strumentazione degli headliner, decorata con scheletri, la rastrelliera piena di chitarre colorate sembra strizzare l’occhio e promettere tuoni e fulmini; tutto comunica già una sensazione di estremo dinamismo, lascia intuire salti sullo stage, pogo senza regole, con quel retrogusto di terror incognita che lascia in bocca quel non so che di mi sa che anche oggi ci lascio qualche costola.
La sala è, da subito, bella pienotta, ma la situazione è ancora gestibile all’ingresso del primo giovane gruppo, i Last Fist Hero, quintetto punk rock nato nel 2014 in Calabria e poi trasferitosi a Bologna in pianta stabile con un parziale cambio di line up.
Testi serrati riguardanti questioni cruciali come guerre, razzismo e fascismo, inni contro tutto quello che esiste di ingiusto e di castrante nella società moderna, uno sprone a ribellarsi al sistema, un nuovo singolo sfornato il 7 giugno 2024 per Sorry Mom! intitolato “Modern Times” e tanta rabbia urlata al microfono con un sound al sapore di Falling In Reverse sono i biglietti da visita dei Last Fist Hero, che ci danno di che iniziare a carburare e infiammare la serata nel modo giusto. In tempo zero ci ritroviamo madidi di sudore, ma è solo l’inizio.
Seguono i Monday Proof, formazione pop punk veneta attiva dal 2014, molto esperta tanto da aver aperto a band come Sum 41, divertente grazie alla loro interazione con il pubblico al quale viene chiesto, per esempio, di tirare qualche saracca per lenire la loro nostalgia di casa: la band viene accontentata all’istante, ci mancherebbe altro, il popolo del Legend ci tiene a far sentire chiunque accolto e coccolato. Anche Satana può sentirsi soddisfatto.
Dopo un esordio in cui la band si dedica principalmente a creare cover di alcuni gruppi pop punk degli anni 2000, i Monday Proof decidono poi di concentrarsi sulla creazione di musica propria, ricca di sfumature funky, incalzante, frenetica, un continuo movimento turbinoso sul palco interrotto qua e là da qualche intermezzo divertente che i fan adorano, come il biondo vocalist Marco Zanon che dimena le terga a testa in giù, appoggiato coi piedi al muro del locale, oppure il lancio di pacchi di assorbenti al pubblico (il pubblico sarà più interessato a ricevere il sacchetto che li conteneva).
I testi sono, anche qua, concentrati sulle questioni sociali più attuali, sempre trattati in modi ironici, leggeri, rimbalzando tra suoni aggressivi e morbidi. Sarei curiosa di vedere cosa potrebbe combinare un gruppo tanto ben affiatato, esperto e irriverente in un live da headliner.
Fin qui dunque, tutto abbastanza gestibile e sotto controllo, ma è quasi tempo dei mostri sacri di stasera: il cambio di palco è rapido, basta togliere l’attrezzatura precedente, il resto c’è già tutto. Comincia a spuntare il personale di sicurezza ai lati del palco, cosa che non vedo accadere spesso, e questo per me è già un indizio inequivocabile di quello a cui sto andando incontro. Alla mia sinistra quelli che sono coristi e parte della crew, vestiti da morte in vacanza, stanno allestendo un vero e proprio minibar, con tanto di ghiaccio per tenere tutto in fresco: dispongono bicchieri di varie misure, bottiglie di birra, superalcolici in bella vista e bibite. Le bibite no, servono solo da tappezzeria, mentre alle altre si ricorrerà spesso e volentieri.
Siamo arrivati al momento tanto agognato degli Zebrahead, che ottengono un pogo ancor prima di mettere mano agli stumenti: gruppo rapcore / punk rock nato nella Orange County, California, nel 1996, siamo quindi ai piedi di grandi veterani e professionisti di prima scelta. Quindici album in studio nel loro curriculum, oltre a qualcosa come 39 singoli, 43 video musicali, 5 video album, 2 compilation, 5 ep, 1 live: roba da far girare la testa, ed è proprio quello che ci faranno fare per tutto il loro concerto, dove il pubblico è sempre costantemente parte attiva e imprescindibile dello show.
Dopo aver buttato giù, chiaramente, uno shottino di buon augurio, gli artisti entrano sorridendo, padroni del mondo e del Legend Club in quel momento: tutto ciò che è stato fino a quel momento viene quasi cancellato con un colpo di spugna, e l’atmosfera si è trasformata in uno stato di pura, incontenibile eccitazione.
Si mette in moto il grande, pulsante cuore del Legend, quello vero: Tu-tum, rimbombano i primi colpi di batteria, e le prime spinte arrivano a ondate sulla mia schiena, quando prima nessuno mi aveva sfiorata; Tu-tum, i cuori esplodono in petto, il britannico chitarrista Dan Palmer e il suo famosissimo baffo saltano dalla pedana in un osanna di battimani e grida.
Il motore si è acceso, e si parte direttamente in quinta senza pause, senza fermate, la set list è ricca, variegata e da bere tutta d’un fiato. Hai voglia di aprire le porte dopo un po’, per tentare di far circolare l’aria: in tempo zero siamo tutti ridotti a una grande zuppa umana, grondanti gocce dal viso, dagli occhi che fanno fatica, a volte, a stare aperti; il pavimento diventa scivoloso sia per noi che per gli artisti sul palco, che dovranno stare perennemente attenti a come muoversi per evitare di finire a terra. Io scivolo ovunque ogni volta che appoggio le braccia alla transenna, e per la prima volta d’estate, le mie lenti risentono talmente del caldo e dell’umidità da formare uno strato di condensa sui vetri; nonostante cercassi di asciugarla, si formava in continuazione ed è perfettamente visibile in alcuni scatti, facendomene purtroppo perdere tanti altr
Gli Zebrahead posseggono tutti gli aspetti di uno spettacolo live di prima categoria, ovvero presenza scenica, musicalità straordinaria, grandi battute tra le canzoni, e il tutto converge a rendere il loro set una vera meraviglia musicale.
La loro musica, dagli albori a oggi, trasporta l’ascoltatore nella vera età dell’oro del Pop Punk in un modo che poche band riescono a fare. Attenzione, questo non significa che il loro sound sia datato, ma anzi, la band possiede un’incredibile abilità nel dare nuova vita al genere e nel produrre nuova musica fresca fresca, pur avendo allo stesso tempo una forte aria nostalgica, a volte. Anche il modo in cui questi artisti si approcciano è diverso dalla stragrande maggioranza degli altri. Dall’inizio alla fine, il set non sembrava come se la band stesse semplicemente passando da una canzone all’altra, seguendo più o meno fedelmente una scaletta.
L’intero spettacolo è stato esattamente questo: uno spettacolo nel vero senso del termine. Dalle piccole introduzioni improvvisate, agli eccellenti e costanti scambi tra i musicisti e il pubblico, al portare un fan sul palco a suonare la chitarra di Adrian Estrella durante “Anthem” regalandogli così un ricordo per la vita: gli spettacoli degli Zebrahead abbattono le barriere invisibili tra artisti e ascoltatori, creando un’atmosfera di festa nella sua forma più vera.
Tutte le persone in sala cantavano insieme, spronati da Estrella: Hug your sweaty neighbour! rendendo fin quasi strani i pochissimi che non lo facevano, e poco importava che fossero brani storici o ritornelli stonati, ogni parola veniva urlata con passione da un pubblico di tutte le età, qualcuno anche mezzo arrampicato sulla mia schiena, ma ormai ci ho fatto talmente l’abitudine che nemmeno mi accorgo dei capelli tirati e quant’altro.
Anche la miriade di crowdsurfer che lentamente, ma inesorabilmente, si dirigevano verso il palco non hanno mancato di cantare finché non venivano acciuffati dalla Zebrahead crew, quelli vestiti da scheletrini, che oltre a distribuire bicchieri colmi (e attaccarsi alla bottiglia loro stessi) erano perfettamente addestrati a prendere tra le braccia qualunque crowdsurfer e veramente nessuno, tra loro e il pubblico, si è fatto male o è caduto in malo modo come ho visto accadere altre volte. Senza il loro provvidenziale intervento me la sarei vista malissimo quando il vocalist e membro fondatore Ali Tabatabaee chiama un ragazzo della crew dicendo che per il suo compleanno poteva avere qualunque cosa desiderasse: For his birthday, he wants to know how many people can crowdsurf all together during one song!
Io che credevo di aver visto l’Apocalisse in terra non avevo ancora visto questo: persone che arrivavano a nastro, due o tre alla volta con la crew sul palco che si alternava a recuperare tutti sulle note di Mike Dexter Is A God, Mike Dexter Is A Role Model, Mike Dexter Is An Asshole. Bellissimo il palco affollato di fan, almeno una ventina, che ballavano sotto i sorrisi compiaciuti della band e ricevevano shottini dagli scheletrini bartender, in un tripudio di bolle di sapone, come in una festa tra amici di vecchia data.
Decisamente meno semplice il wall of death che, sul pavimento reso viscido dal sudore accumulato, vede più fan scivolare, complici le lisce suole delle Vans, che altro. Ancora una volta, questo è un concerto vietatissimo a chi ha problemi nello scambiare contatti molto ravvicinati con pelle e respiri di persone mai viste prima.
In scaletta ci sono tracce che sembrano rispecchiare il mio sentimento: “No Tomorrow”, “Postcards From Hell”, “Worse Than This”, ma anche “Rescue Me” ha il suo perché, stasera. Adrian Estrella, Dan Palmer e il vigoroso bassista Ben Osmundson distribuiscono plettri come caramelle ai fan imploranti e adoranti durante tutto il set, Palmer non li lancia, ma li consegna direttamente nella mano di chi sceglie lui; con mia sorpresa e grande piacere, decide anche di spalmarmene uno in fronte, sopra i capelli umidi.
Nel frattempo il palco sembra essere stato sotto la pioggia battente tanto è bagnato, o di essere sott’acqua, le mie macchine faticano a lavorare; Estrella si toglie la maglietta lasciandoci la visuale di come il sudore coli in rivoli sulla pelle e sulla chitarra, direttamente. Bicchiere di birra in mano, il basso parcheggiato sul fianco, Osmundson ci spiega che stasera in scaletta abbiamo una chicca: We have a track for you that will be out in about one week, but you can hear it right now! Il brano si intitola “Pulling Teeth” e verrà rilasciato il 31 luglio 2024, l’unico brano che per ovvi motivi è ancora meno conosciuto degli altri.
Adrian Estrella, vocalist potente che fa parte del gruppo dal 2021, è un personaggio estremamente estroverso, super amichevole e positivo, parla con tutti, abbraccia tutti ed è sempre sul punto di inventarsi qualcosa, come quando si china a osservarti con aria assorta, e a fine concerto lo troveremo fuori dal locale ancora mezzo svestito a chiacchierare e bere birra con tutti quelli che vogliono la sua compagnia, un ragazzo tra i ragazzi, semplice e alla mano. Iconico è Dan Palmer, il cui baffo che spesso e volentieri sfiora le mie lenti appannate resiste eroicamente alla calura e al sudore; visto così da vicino è ancora più iconico. Osmundson, immancabilmente con il bicchiere in mano, stabilisce che Legend Club is an amazing, small venue, and Italian audience is the best; ah, Italy fuckin’ wins!
Ciliegina sulla torta, dal backstage arriva una sorta di materassino gonfiabile rotondo, a forma di fetta di anguria, sul quale un ragazzo della crew surferà avanti e indietro sul pubblico, sfidando i tubi del basso soffitto e anche i ventilatori a pala, rischiando lo scalpo. Ho paura di morire, esclamano alle mie spalle mentre io, al comparire dell’anguria, mi accovaccio pregando per la salute mia e della mia attrezzatura.
Il materassino torna poi indietro vuoto: ecco, il ragazzo non c’è più, sarà morto, ipotizza qualcuno, ecco invece che arriva sano e sano e sorridente, pronto a festeggiare a suon di shottini.
Ero consapevole che alla fine del concerto sarei uscita devastata, e così è stato: al momento dei saluti, mentre i musicisti distribuivano i plettri residui, la folla si accalcava talmente forte da non potermi muovere in alcun modo, e resto ciondolante sulla transenna come un pupazzo, con al collo quasi quattro chili di attrezzatura e fan alle mie spalle che approfittano delle mie anche per arrampicarcisi sopra, tentando così di raggiungere la mano di Estrella o il plettro di Palmer. Qualcuno si accontenta persino di brandelli di set list cartacea ormai ridotta a poltiglia.
La mia uscita è delle più trionfali mai avute: vestiti divelti, gocciolante sudore non solo mio, capelli ovunque, anche in bocca, e tutt’ora dubito fossero solo miei. La canicola della notte meneghina, sui trenta gradi, è rinfrescante al confronto del calore all’interno della sala. Un concerto del genere dimostra perché gli Zebrahead sono riusciti a sostenere una carriera più lunga di altre band loro contemporanee.
Combinando il loro incredibile tatto musicale e il loro vasto, impressionante catalogo con la loro immensa esperienza live, la band crea un’esibizione dal vivo che anche i gruppi più veterani avrebbero difficoltà a eguagliare. Dopo quasi trent’anni di attività, gli Zebrahead continuano a pubblicare musica che rivaleggia, se non addirittura supera, ciò che i fan considerano il loro meglio, ed eseguono concerti che non lasciano assolutamente nulla in riserva. Questa band stratosferica dovrebbe essere considerata a tutti gli effetti uno dei migliori spettacoli dal vivo che il Pop Punk abbia mai avuto, e se avrete la possibilità di vederli capirete il perché.
Articolo e foto di Simona Isonni
Set list Zebrahead Milano 25 luglio 2024
- When Both Sides Suck, We’re All Winners
- No Tomorrow
- Postcards From Hell
- Hello Tomorrow
- Worse Than This
- Lay Me To Rest
- Call Your Friends
- The Perfect Crime
- Mike Dexter Is A God, Mike Dexter Is a Role Model, Mike Dexter Is An Asshole
- I Have Mixed Drinks About Feelings
- Hell Yeah!
- Who Brings A Knife To A Gunfight
- Drink Drink
- Rescue Me
- Pulling Teeth
- We’re Not Alright
- Homesick For Hope
- Anthem
- All My Friends Are Nobodies
- Falling Apart