Il 4 ottobre è uscito “Synthesizer”, il settimo album della band newyorkese A Place To Bury Strangers. Ho avuto l’intuizione che fosse un album interessante quando ho notato il vinile, al cui interno si trova un circuito utilizzabile per costruire un sintetizzatore. Sembrerebbe una banale trovata di marketing, ma è molto di più: chiunque conosca Oliver Ackermann sa che il chitarrista è sempre stato affascinato dal “DIY”, il fai da te, il saper creare qualcosa da zero. Questo lo ha portato a dare vita a Death By Audio, un progetto poliedrico che è al contempo venue per concerti, studio di registrazione e adesso anche fabbrica di effetti per chitarra creati dallo stesso Ackermann. Non sorprende, quindi, che abbia voluto inserire questa originale idea nel packaging, rendendo “Synthesizer” un sintetizzatore a tutti gli effetti.
Eppure, nonostante il titolo dell’album possa suggerire un’apertura verso l’elettronica, la band resta fedele al proprio stile, una fusione di Noise Rock e New Wave caotica e adrenalinica. Già nei primi dieci secondi di “Disgust” si percepisce l’energia che caratterizza l’intero lavoro. La traccia, ibrida tra industrial e shoegaze, esplode in chitarre colme di feedback, graffianti e taglienti. Anche quando alcuni brani appaiono più puliti, il suono mantiene un persistente retrogusto metallico, un grido costante, un melodico effetto “unghie sulla lavagna”.
Il disco si distingue per una produzione essenziale, senza fronzoli, che restituisce la sensazione di trovarsi a un loro live: energia pura e diretta. La base noise è sostenuta da una ritmica potente e lineare, con occasionali deviazioni verso sonorità indie rock come “Join The Crowd”, che richiama i The Strokes, seppur con un maggiore uso di riverbero e dissonanze. In contrasto, “Bad Idea” rappresenta il lato più crudo e caotico dell’album, grazie a cori sommersi che amplificano la sovrapposizione di suoni taglienti.
Tra le tracce più interessanti spicca “It’s Too Much”, che combina sintetizzatori più presenti con un’introduzione di batteria per nulla lineare. Un riff acuto e incisivo, tipico del post-punk elettronico, si intreccia con una voce volutamente distante, creando un suono stratificato e avvolgente. Plastic Future, invece, attinge dagli anni ’80, arricchendo l’album con un pizzico di nostalgico Goth Punk.
La natura live del disco è un elemento centrale: ascoltare Synthesizer è come assistere a un concerto privato direttamente in cuffia, percependo ogni sfumatura grezza e autentica. La voce distante e intrisa di riverbero contribuisce alla sensazione di analogico che attraversa tutto l’album. Il frontman ha dichiarato di “voler scrivere canzoni che tutti fossero entusiasti di suonare”, il che non è scontato in un’era in cui i brani in studio non corrispondono quasi mai a come verrebbero suonate dal vivo. La band evita ritornelli troppo levigati o una post-produzione eccessiva, puntando invece sull’impatto emotivo e sull’energia.
Synthesizer dimostra che si torna sempre dove si è stati bene e che non serve reinventare tutto per lasciare un segno. È un disco onesto e senza filtri, capace di stupire senza artifici, riportandoci dove la band è sempre stata più a suo agio: nella dimensione dal vivo, dove l’identità degli A Place To Bury Strangers trova la sua massima espressione.
Articolo di Marta Mazzeo
Tracklist Synthesizer:
- Disgust
- Don’t Be Sorry
- Fear Of Transformation
- Join The Crowd
- Bad Idea
- You Got Me
- It’s Too Much
- Plastic Future
- Have You Ever Been In Love
- Comfort Never Comes
Line up A Place To Bury Strangers: Oliver Ackermann voce, chitarra, basso / Sandra Fedowitz batteria / John Fedowitz basso, batteria
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