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Alan Sparhawk “White Roses, My God”

Il primo album solista del chitarrista dei Low nasce dal dolore, ma diventa pura catarsi

Se state aspettando “White Roses, My God”, il primo album solista di Alan Sparhawk, sperando di trovarvi dentro (nascosto sotto falso nome) il nuovo lavoro dei Low, allora sbagliate di grosso. Il disco, uscito il 27 settembre via Sub Pop, è un elemento alieno, strano e scostante, che non fa nulla per andare incontro all’ascoltatore. Adoro i Low, ma i primi due ascolti devo ammettere che mi hanno messo a dura prova. Poi, grazie alla fiducia che Alan e Mimi hanno infuso in me nel corso di una carriera strepitosa, l’approfondimento si è evoluto in tutt’altra storia. Mi sono ritrovato a scoprire un mondo sommerso, a carpire la melodia laddove sembrava non ci fosse, a comprendere la struttura dove credevo esistesse solo suono stratificato. E la botta è arrivata.          

“Get Still” apre le danze ricordando la produzione di “Drums And Guns” (2007), un mix di Elettronica e Alt Rock reso ancora più sperimentale dalla scelta vocale di Alan Sparhawk, che decide di destrutturare la sua splendida voce attraverso filtri ed effetti che la rendono irriconoscibile. “I Made This Beat” ricorda quei cortocircuiti di reiterazione cari ai Daft Punk, e aggiungerei che non suonerebbe per niente male in un’ipotetica versione dance, ben remixata. “Not The 1” si ritaglia uno spazio più piccolo, un angolo sommesso e discreto, e forse proprio questa eccessiva remissività non gli permette di fiorire come si deve.   

“Can U Hear” si muove lungo i sentieri elettronici già calcati da Thom Yorke nelle sue esperienze da solista, ma con una deriva ancora più estrema e ipnotica, e il videoclip girato da Rick Alverson è a dir poco fulminante. Nella sua poetica visiva infatti – così come in “Heaven” e “Get Still” – potete trovare tutto il significato profondo del progetto. Sarà forse per gli effetti vocali, ma i brani sembrano davvero dei mantra depurativi, delle esperienze attraverso cui liberarsi dal dolore e dalla sofferenza, per arrivare a generare quelle rose pure citate dal titolo.  

“Heaven” è un inserto breve e folgorante di cui s’intuisce subito una melodia bellissima… il resto è tutto nel testo, e non credo abbia bisogno di essere spiegato: Heaven it’s a lonely place if you’re alone /  I wanna be there with the people that I love / Maybe someone that you’re waiting / Oh, who who’s gonna be there / Yeah, you. Nell’incipit di “Brother” la voce naturale di Alan sembra quasi lottare per emergere e tornare allo scoperto; è soffocata dall’effetto, è schiavo di esso, ma ad esso anche felicemente legata; perché è attraverso quella manipolazione che l’emozione riesce a filtrare in maniera così convincente.
           
“Black Water” è il brano più sperimentale del combo, senza una precisa linea melodica, un flusso di parole affogate nel mare di suono, beat e sovra-incisioni. “Feel Something” parte con un riff aperto e leggero, salvo rivelare la sua vena disperata nel testo Can you feel something here? / “I want to feel something here / Can you help me feel something here?. “Station” apre con un parlato-recitato acido, e la scelta radicale viene portata avanti durante tutta la durata della canzone, che si presenta quasi come una narrazione orchestrata su pattern sonori. Quando siamo certi che la voce di Alan Sparhawk sia stata negata e smembrata abbastanza, arriva “Somebody Else’s Room”, in cui la gamma di manipolazione si evolve ancora, passando dai toni più gravi ai più alti. Chiude “Project 4 Ever”, e se una parte di voi si aspetta una minima concessione al classicismo almeno in coda, be’, andrà incontro a una delusione, trovandosi di fronte a un brano diviso in due sezioni, separate da un bridge di suono simil-interrotto.

 “White Roses, My God”, registrato ai 20 Below Studios di Duluth, co-prodotto da Alan Sparhawk e Nat Harvie, è una creatura speciale. Un grido di dolore e un’affermazione di annientamento. Ma di un annullamento solo temporaneo, perché proprio attraverso le melodie sotterrate s’intravede la necessità vitale di reagire, di tornare a respirare, di credere che la strada non sia ancora finita. Se c’è un elemento che più di ogni altro ha caratterizzato i Low, è stato l’impatto emozionale che ha sempre generato la fusione delle voci di Alan e Mimi. Ora che l’Angelo (come amavo chiamarla) non c’è più, la scelta di lavorare per negazione appare non solo rispettabile, ma quasi dovuta. Un ultimo omaggio a Mimi Parker da parte dell’uomo che l’ha sempre idolatrata, e che sembra affermare: Senza di te la melodia non sarà mai più la stessa.

Articolo di Simone Ignagni


Track list “White Roses, My God”

  1. Get Still          
  2. I Made This Beat       
  3. Not The 1      
  4. Can U Hear    
  5. Heaven
  6. Brother
  7. Black Water    
  8. Feel Something          
  9. Station
  10. Somebody Else’s Room         
  11. Project 4 Ever

Alan Sparhawk online:        
Official https://www.chairkickers.com/ 
Facebook https://www.facebook.com/lowmusic  
Instagram https://www.instagram.com/lowtheband/   
You Tube https://www.youtube.com/channel/UCm2S6uFMsREC088Cd8XU8pQ

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