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Bob Dylan “Shadow Kingdom”

Il disco celebra un grande artista, ma non è un testamento

Si va verso il gran finale, viene da dire dopo aver ascoltato queste ombre presenti sia sul disco, sia nei concerti dal vivo. Dylan, infatti, che non necessita di alcuna recensione, ma semmai solo di un’attenta riflessione, come si addice ai classici, è stato infatti in concerto nel nostro Paese, nel mese di luglio e, dal 2 giugno, ha messo in circolazione “Shadow Kingdom”, un nuovo disco. Disponibile online, in cd e in vinile (a oggi senza alcuna variante colorata, e speriamo in bene…). Proprio perché Dylan è fuori dal tempo, appare inutile recensire un lavoro che è figlio di uno dei pochissimi artisti che hanno trasceso, già in vita, la dimensione del tempo. Proprio per questo Dylan può fare quello che vuole, e soprattutto come vuole. A noi il compito, non sempre facile, di seguirlo. Capire. Comprendere.

La libertà di Dylan è tale da essere riuscita a ingabbiare, per circa due ore, un popolo ormai drogato di telefono cellulare. In particolar modo noi italiani. Ci ha messo a sedere, composti; ci ha obbligato (grazie davvero di cuore) ad arrivare puntuali, e ci ha fatto il dono di attendere parlando con le persone vicine di posto. Il tutto in una sala buia, luogo ideale per la vita delle ombre, e senza permetterci di portare a casa neppure un inutile piccolo filmato. Eroe, senza dubbio. Anarchico, anche. Originale, ma guarda un po’. Oppure, a ben vedere, il Nostro ci ha mandato, con queste ombre, un messaggio chiaro? Propendo per questa seconda opzione.

Ecco perché questo nuovo lavoro esige quanto meno una riflessione, e non tanto una recensione.  I classici, per definizione, sono fuori dal tempo. O qualcuno se la sente di recensire “Otello”, “Il Barone Rampante”, “Guernica”, “La Cappella Sistina”? Detto questo, per fare un poco i compiti in modo preciso, diciamo quel tanto che serve. “Shadow Kingdom” è la fedele riproposizione di un strano live/show/performance che Dylan nel 2021 tenne in California. Questa performance, non saprei come altro definirla, oltre a essere stata concessa dal Nostro in streaming (fatto già insolito), oggi si può visionare su una delle tante piattaforme online, e si può ascoltare su vari supporti. Un dono vero, per grazia ricevuta. 

Il risultato è una rilettura – esattamente come hanno fatto gli U2 (la nostra recensione) – di alcune canzoni dell’immenso repertorio letterario – così va definito dal 2016 – di Bob Dylan. In questo caso, però, a differenza di quello che è successo con la band di Bono, nessuno ha gridato allo scandalo. Nessuno ha scherzato con i santi. Nessuno ha alzato lance, fiaccole, spade e scudi. Anzi, tutto il contrario. Bene, così direi. Il peso dell’autorità, per una volta, ha vinto sul chiacchiericcio. Molti i pezzi rivisti, ri-arrangiati e dotati di nuova vita. Fra questi, l’operazione più radicale è quella su “Tombstone Blues”del 1965. In ogni caso, la maggior parte delle canzoni arriva dai lontani anni ’60, ma ci sono anche incursioni più recenti come “Forever Young” del 1974, “What Was It You Wanted?” che arriva dall’anno che ha cambiato il Mondo, e cioè il 1989. In chiusura poi, c’è anche un brano strumentale che pone fine all’ombrosa session, e cioè “Sierra’s Theme”.

Ombre, dunque. Parola chiave. Concetto estetico affascinante. Ci sarebbe di che scrivere un saggio, se non lo avesse già fatto il filosofo Ernst H. Gombrich. L’ombra che ci appare effimera e sfuggente ha un’evidenza che non può essere spiegata con le leggi dell’ottica e si sottrae alla logica della percezione. Ma al tempo stesso affonda le sue radici nella leggenda e nel mito, e tracce delle leggende e del mito fa affiorare allo sguardo, non solo ottico, dello spettatore. Già…

Forti di questa prefazione chiediamoci se le sue siano ombre dal passato, o per il futuro? Chissà… Questo è il primo grande e affascinante problema che ci regala il Nostro. Forse sta davvero pensando a ciò che resta del suo futuro… Quel tour infinito che, negli ultimi 20 anni, lo ha visto sul palco circa tremila volte, per una media di 150 concerti all’anno, volge al termine. Le ombre sono forse queste, quelle del presente che aleggiano sul futuro? Chissà… Sul palco, infatti, agli Arcimboldi, c’erano solo la sua voce, e la sua ombra. Che sia un messaggio chiaro, e per questo in contrasto, appunto, con l’ombra? E cioè che, fra poco, ciò che resterà di lui saranno solo l’ombra e la sua voce? C’è da pensarci sopra, e con attenzione…

La mia riflessione, ascoltato bene l’album, e goduto dei recenti live, è che Dylan, al netto del suo carattere scontroso, sappia bene cosa stia facendo e, allo stesso tempo, cosa voglia dirci. Non si tratta affatto di un disco, e di un tour, messi in campo per tirare avanti la carretta. Tanto meno per celebrare il suo mito. Ricordiamoci che, nel 2016, non si è presentato a ritirare il Nobel. Chiunque di noi, sarebbe corso alla corte del Re con l’abito della festa. Siamo onesti… Torniamo a noi. In primis, dato che si tratta di letteratura, e non più di sola musica, Dylan ci chiede attenzione, ascolto e pensiero. Proprio come succede con i libri, e in particolar modo con i classici. Niente distrazioni, quindi. Via i cellulari. Dobbiamo ascoltare, e dobbiamo farlo insieme. Ascoltiamo storie, e per farlo serve essere attenti. Come alla corte dei Feaci, quando arriva Ulisse, sotto mentite spoglie, come un’ombra appunto. Vi pare poca cosa? In un’epoca di solitudini digitali, Dylan ci riporta nella stalla di Olmi, quella della bellissima scena dell’  “Albero degli Zoccoli”. Lì, nella penombra, i bambini ascoltavano tutti insieme, in silenzio e in estasi, chi raccontava favole. Poi, con una piccola magia, si faceva finire il tutto, e si correva fuori. Di nuovo alla luce. Felici.

Qualcuno, ai concerti, lo ha capito, e se ne è andato, dopo lo show, tenendo in tasca il telefono spento. Altri invece (la maggior parte) sono corsi ad accendere, messaggiare, e fare selfie con lo stabile del teatro, dove non c’era neppure una locandina dello spettacolo. La differenza che si produce grazie al regno delle ombre, che ci propone oggi l’artista, è tutta in questi gesti. Dylan è consapevole di essere già immortale. È ormai un’ombra nella società dello spettacolo digitale; nell’epoca della luce azzurra dello schermo, quella che uccide l’ombra. Questa consapevolezza, e cioè di essere un classico in vita, gli permette di diventare un’ombra, e cioè una presenza, non ancora assenza.  Il XX° secolo, che piaccia o no, si chiuderà solo con la sua dipartita, e cioè con quella di un artista, oggi ombra, che ha saputo trasformare un genere in arte, facendolo diventare poi arte popolare e, infine, per cambiarne la sostanza e farlo essere letteratura, e cioè ciò che finirà, come già succede, in tesi, saggi, antologie e studi.

Così queste ombre, quelle che lo hanno accompagnato anche nelle due ore dei concerti italiani, dove lo si è visto davvero poco, se non come ombra appunto, sono un chiaro nuovo messaggio per un Dylan che, in 60 anni, ci ha detto tutto quello che ci doveva dire. Tranne una cosa, figlia ovviamente dei nostri tempi. Serve saper ascoltare. E per farlo è necessario dimenticare le connessioni virtuali, i social e il Metaverso,   per mettersi a vivere davvero il presente. Ascoltare, dunque, senza dover guardare. Usare l’udito, e non la vista. Come si faceva tanto tempo fa… Questa è la rivoluzione che Dylan ci chiede di pensare.

“Shadow Kingdom”, dunque, celebra un grande artista. Non è un testamento. Si può dire, volendo, che si tratta di un nuovo tassello del grande mosaico che forma la sua opera. Uno dei meno immediati da capire e da cogliere. Proprio per questo lo si deve, ancora una volta, ringraziare, perché ci ha reso consapevoli di qualcosa che ci sta accadendo attorno. Come d’altronde ha sempre fatto, dai lontani anni ’60, epoca in bianco nero, dell’ombra, dunque, rispetto ovviamente al technicolor digitale che viviamo.

In conclusione, questo è sempre stato il compito dell’arte e dell’artista. Picasso lo riassumeva in questo modo: l’artista deve bucare gli occhi, per permetterci di guardare ciò che ancora non siamo in grado di vedere. Anche Bunel, nel suo cortometraggio “Un chein Andalou”, ce lo mostrava già nei primi fotogrammi. Un rasoio tagliava l’occhio, una ‘violenza’ necessaria per svegliarci dal torpore. Ecco cosa sono le ombre di Dylan. Un taglio netto, come quelli di Lucio Fontana. Come è noto, da quei tagli, emergevano le ombre dell’infinito. Buon ascolto.

Articolo di Luca Cremonesi

Track list “Shadow Kingdom”

  1. When I Paint My Masterpiece
  2. Most Likely You Go Your Way and I’ll Go Mine
  3. Queen Jane Approximately
  4. I’ll Be Your Baby Tonight
  5. Just Like Tom Thumb’s Blues
  6. Tombstone Blues
  7. To Be Alone with You
  8. What Was It You Wanted
  9. Forever Young
  10. Pledging My Time
  11. The Wicked Messenger
  12. Watching the River Flow
  13. It’s All Over Now Baby Blue
  14. Sierra’s Theme
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