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Hugo Race e Michelangelo Russo “100 Years”

Disco cupo, esistenziale, un’esperienza sonora che, pur se non del tutto innovativa, resta comunque un tentativo sperimentale

Hugo Race torna a collaborare con il musicista italiano Michelangelo Russo, e il risultato è “100 Years”, album uscito il 19 settembre per Gusstaff Records. Un disco di sette brani, di lunghezza variabile, che non tiene conto della classica forma canzone, se non per la traccia che dà il titolo all’intero lavoro. Un album che, a differenza del precedente disco di coppia, e cioè “John Lee Hooker’s World Today”, profuma decisamente meno di Blues. Per la verità, il sapore non manca, ma di certo questo disco è decisamente più dark e meno blues del precedente.

Un cambio di rotta che non stupisce, e al quale Race ha comunque abituato il suo pubblico, anche se si confronta questo nuovo lavoro con il disco “Fake is Forever” scritto e suonato con The Wreckery. Semmai si può dire così, e cioè che Race fonde cannoni per farne fucili. Detto in altre parole, mette insieme con sapienza quanto di meglio fatto fin qui nella sua carriera: Nick Cave, con un po’ di New Wave sperimentale, oltre a Blues e Country di sapore postmoderno. Il tutto consente di confezionare un lavoro cupo quel tanto da non essere mainstream, e intenso da non apparire per forza un prodotto carsico, sotterraneo e per palati fini.

Il pezzo che apre il disco, “100 Years”, scritto dal solo Race, rimanda direttamente alle atmosfere più cupe di Cave, tanto da sembrare più un omaggio vero e sentito, che un pezzo che arriva dal sacco degli attrezzi del musicista australiano. Si tratta del brano più orecchiabile. Di primo acchito, è quello che crea senso di spaesamento, soprattutto una volta che si prosegue con l’ascolto. La canzone ha un classico mood a tinte blues, pur se il fumo e il catrame, che rimandano in parte a Tom Waits, non mancano. Anche nelle parte recitate, dove lo spettro di Waits s’aggira per tutto l’album.

Poi il viaggio, che mi sento di definire in un west post-moderno, inizia per sei lunghe tracce, dove tutto viene letteralmente stravolto. La forma canzone scompare, e non se ne sente affatto la mancanza. Quando riappare, è ben dosata, e non disturba un ascolto che di fatto è un vero flusso di coscienza. Nulla di simile agli ultimi lavori di Race, ma neppure troppo distante dalle sue solite sonorità. “Lost Children”, come d’altronde “Help me Somebody”, ricordano molto Tom Waits, e i suoni della chitarra di Marc Ribot. Le atmosfere sono quelle dei western esistenziali, genere che tanto piace di quest’epoca. Questi suoni, insomma, sarebbero stati perfetti per la prima stagione di “True Detective”. In sostanza, minimalismo al quale si aggiunge la voce strascicata e recitante, da narratore onnisciente che attraversa deserti fatti di suoni lunghi, pungenti e cupi.

“Earths Answer” è uno dei pezzi più interessanti, dove i suoni rarefatti ricordano gli ultimi Radiohead, e raccontano di una musica che non è più pulita e cristallina, ma sporca, e che si produce in lontananza. Tutto questo richiama ambientazioni da film apocalittici. È una terra desolata quella che si racconta nei suoni di “100 Years”, dove il minimalismo dimostra di avere potenzialità infinite, se lo si sa usare al meglio. “War Outside My Window” prosegue su questa strada, con l’aggiunta di una chitarra che sembra voler emergere per ridare vita a una voce che, in questo specifico caso, ricorda per davvero il Cave di “Skeleton Tree”.

Il viaggio che Race chiede di fare hai suoi ascoltatori vuole impegno per tutto l’album. Nel mezzo del cammino di questo lavoro, poi, non serve resistere a un clima che è ormai claustrofobico, e dove solo la chitarra, in alcune parti tirata con suoni che ricordano quelli del Prog, sembra voler essere l’unica àncora di salvezza di questo brano cupo, e al profumo di nicotina. Di salvezza, come di speranza, tutta via, in questo lavoro se ne trova comunque non troppa, perché si tratta comunque di un disco che esige sacrificio, da parte di chi ascolta.

“Eternal City” è un pezzo che, in altri contesti e altri anni, avrebbe potuto tranquillamente esser stato inciso dai Pink Floyd degli albori. L’incipit, con una chitarra appena accennata e un suono martellate di sottofondo ricorda le atmosfere della colonna sonora “Obscured by Clouds”, dove i Floyd avevano sfoderato una vena cupa che non è più tornata così preponderante nella loro produzione. Il disco si chiude con “Golden Times”, e già dall’inizio sembra che un’alba si possa alzare dopo la notte, lunga, infinita tanto quanto respingente. In questo brano, dunque, ciò che resta è solo suono senza gabbie, quasi fossimo ormai liberi di volare nello spazio, all’inseguimento di un’alba che non verrà.

Un disco cupo, esistenziale, dove l’abbandono è decisivo, al fine di vivere a pieno un’esperienza sonora che, pur se non del tutto innovativa, resta comunque un tentativo sperimentale, figlio della nostra epoca, fatto e messo in campo per raccontare con i suoni prodotti dalla voce, e da pochi strumenti. Minimalismo creativo ben curato, senza per forza avere la pretesa di essere sul mercato come capolavoro, per voler cambiare la storia della musica. La speranza è che questo album possa arrivare live in Italia, in luoghi – come i teatri – dove perdersi per lasciarsi catturare da questa piacevole esperienza sonora.

Articolo di Luca Cremonesi

Tracklist “100 Years”

  1. 100 Years
  2. Lost Children
  3. Help Me Somebody
  4. Earths Answer
  5. War Outside My Window
  6. Eternal City
  7. Golden Times
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