Era da tempo che non usciva un disco legato al tema mare. Non tutto, perché non si tratta di un omaggio sulla scia di “Creuza de mä” di Pagani e De André, o di “Marinai, profeti e balene” di Vinicio Capossela. Questo “Jalitah” di Iosonouncane e Paolo Angeli, disponibile dal 9 giugno su Tanca Records, nasce dai suoni del mare, e racconta storie legate all’isola dalla quale prende il nome, parla dei rumori del Mediterraneo e narra vicende che hanno a che fare con la grande tavola blu. Il mare è senza dubbio uno dei fili portanti di questo lavoro che fonde insieme l’esperienza di “Ira” di Iosonouncane (la nostra recensione), e di “Rade”, album di Angeli che ha fatto molto parlare di se, ma non è l’unico aspetto di questo ricco lavoro discografico. C’è anche molto altro: la nostalgia, il ricordo e, non ultimo, la ricerca sonora, motore degli ultimi lavori dei due artisti.
Il progetto “Jalitah” nasce dall’incontro fra due sperimentatori, proprio come fu quello fra Pagani e De André, ai tempi della loro felice collaborazione. Isonouncane e Angeli, lo scorso anno, hanno messo insieme le forze e hanno prodotto questo spettacolo che ora esce come testimonianza live. Questo sunto rende piena giustizia al lavoro dei due musicisti che, ognuno nel suo campo, hanno saputo essere innovativi e innovatori. Soprattutto in quest’epoca povera di grandi idee. “Ira” di Iosonouncane è stato, e resta, un album generativo; come d’altronde la sua casa di produzione, la Tanca Records che sforna opere interessanti come Vieri Cervelli Montel (la nostra recensione) e Daniela Pes (la nostra recensione). Paolo Angeli, per contro, non è da meno, soprattutto in fatto di ricerca sonora, grazie alla sua chitarra sarda preparata.
Ne deriva così un lavoro che è frutto di un’esperienza live dove improvvisazione, studio, inseguimenti e sovrapposizioni, hanno determinato l’accadere di un suono che ricorda tante esperienze, ma non assomiglia a nulla di già ascoltato fino a ora. Merce rara, davvero. Il duo ridisegna le mappe della musica italiana, annullando i confini tra avanguardia e forma canzone, realizzando un disco in cui la sperimentazione dialoga “vis a vis” con la solennità lirica di alcune delle composizioni più conosciute di Incani. L’universo cangiante della chitarra sarda preparata di Angeli entra in collisione con il monolite multicolore di Iosonouncane. Tra le secche affioranti di “Jalitah”, a noi rimangono i resti di schegge impazzite che piovono dal cielo, alternando paesaggi acustici di infinita liricità e barriere di rumore bianco, per rompere definitivamente il confine tra la musica leggera e la musica d’avanguardia. Non si può che concordare con questa descrizione dopo i primi ascolti (e ne servono parecchi per far proprio questo mondo musicale, sonoro e rumoroso). Tradizione, da un lato, ma anche innovazione, fuse insieme esattamente come un tempo facevano i conquistatori. Chi vinceva era solito prendere statue e tesori al fine di fonderli per fare nuove opere, e dar vita così a nuovi tesori. Questo è esattamente quello che accade fra le tracce di questo album.
“Jalitah”, partiamo da qua, è il nome di un arcipelago situato nel canale sardo-tunisino. Cercatelo sulla mappa di Google per rendervi conto di quanto piccolo sia. Per capire quanto questa esperienza musicale, che si richiama a un piccolo mondo sconosciuto, sia minoritaria e, dunque, generativa. Un disperso arcipelago che, però, rappresenta bene e pienamente la ricerca sonora di questo album. Da queste nove tracce le musiche, come le canzoni, risalgono da profondità spesso abissali, e riemergono dal flusso di improvvisazioni libere. Proprio come accade per le isole, in mezzo al mare. Atolli sonori, spesso selvaggi, poco abitati e frequentati.
Il materiale di questo “Jalitah”, ed è un altro elemento positivo, è stato registrato durante il tour estivo che ha toccato festival e rassegne, quali “Villa Ada incontra il Mondo” e “Abbabula” in Sardegna. La loro è una musica viva dove rumore e silenzio vanno a braccetto, dove la forza di una mareggiata di maestrale porta con sé una risacca in grado di insabbiare i porti. Una voce consumata dal vento ci dice che i mari non sono tutti uguali. L’ultima volta che si sono incontrati questa distesa azzurra era avvolta dalla quiete della bonaccia, da quella sensazione struggente che ti ricorda che devi partire dalla tua terra per il gusto dell’avventura si legge sempre nella presentazione. Qui sta la partenza dell’album che ci immette subito in un suono di nave che si stacca dalle coste di un porto – “Zeidae”, la prima traccia – per affrontare un viaggio che non sarà privo di movimento, rotte inattese, voci di sirene, rumori e canti. Risuonano, ma solo come echi, “Jamin-A”, ma anche le sonorità del Capossela che ha cantato il mare e, allo stesso tempo, lo ha raccontato in “Tefteri” (il suo libro migliore, leggetelo).
Insomma, “Jalitah” è un’odissea sonora che passa dalla ricerca pura, come nei brani “Sela”, o nell’ultima traccia “Nãr”, davvero intensa, dopo un primo ascolto che può generare repulsione e disturbo. Solo però al primo ascolto, perché poi si tratta di uno dei brani più interessanti di questo album. Il più estremo, che mette a dura prova le nostre orecchie, in modo piacevole. Senza dubbio. Da questi suoni si passa poi al cantautorato d’autore con “Giugno”, “Summer on a spiaggia affollata”. Battiato, certo, ma per alcuni aspetti anche il Capossela di “Lord Jim” e la “Bianchezza della Balena”, passando per la rilettura che ha fatto Maroccolo di “Santissima dei naufragati”. Nessuna citazione, ma echi, suoni lontani, luci di fari nella notte. Per non perdere la rotta.
Così, mentre si viaggia in questo arcipelago di sonorità, Iosonouncane e Angeli ci lasciano spazi ampi per cercare letture di quest’opera dove il mare non appare come luogo privilegiato per far baldoria. L’acqua (salata) è anche simbolo di ricerca, di ritorno all’origine, di viaggio epico; è liquido amniotico universale che dona la vita, non solo agli esseri viventi, ma all’umanità stessa. Senza dimenticare il potere distruttivo delle onde, per chi affronta questo viaggio senza protezioni. Spaesato. In balia degli eventi. Il suono di “Jalitah”, quindi, non è rassicurante, ma diventa magma incandescente, come in “Carne”, uno dei pezzi più interessanti con “Zeidae”, dove è impossibile cristallizzare senso e significato. Brano emblematico, se si pensa che il Mediterraneo è anche grande cimitero di carne, spesso senza nome, storia e memoria.
Per concludere, l’opera ha molti pregi, e fra questi il principale è che lascia aperte strade, porte e finestre a dimensioni che, grazie alle distorsioni della chitarra di Angeli e ai suoni elaborati di Iosonouncane, diventano spazi per sopravvivere. Diventano, anche, luoghi da colonizzare, da vivere con nuovo spirito. Si tratta di una musica dove non ci si sente subito a casa. Serve entrare in punta di piedi, con pazienza. Respirando. In silenzio. Il tutto, dunque, come succede sulle isole. Queste sorgono dal mare, fin dai tempi degli antichi greci. Allo stesso modo questo lavoro fa nascere trame sonore, e cioè isole di senso, da un movimento continuo che ricorda quello non tanto della bonaccia, quanto del maroso. Non c’è pace, come non ce ne è nel Mediterraneo, anche se all’apparenza si tratta di un mare chiuso. Un luogo ristretto, rispetto all’oceano, dove però c’è storia, ci sono esperienze e vite che si muovono, cadono, muoiono, e sognano. Stessa cosa, se ne avrete pazienza, accade con i suoni ricchi, disturbanti e anomali, di questo “Jalitah”.
Articolo di Luca Cremonesi
Tracklist “Jalitah”
- Zeide
- Sela
- Summer on a spiaggia affollata
- Andira
- Banco delle sentinelle
- Carne
- Galena
- Giugno
- Nâr