Sono sempre stato un fan sfegatato e collezionista a livelli patologici dei R.E.M., e quando mi è stato chiesto se avessi voluto scrivere due righe su questo “Oh Me, Oh My” di Lonnie Holley – fuori il 16 marzo su Jagjaguwar – ho accettato entusiasticamente solo perché le note della cartella stampa riportavano la scritta “feat. Michael Stipe” accanto al titolo della terza canzone. Bene, mi sono ritrovato davanti a un opera complessissima, che niente a che fare con l’universo dei R.E.M, né con quello di Sharon Van Etten e di Bon Iver (che sono altri due ospiti del disco), né con tutto quello che può capitare di ascoltare in giro.
Intanto può essere utile dare qualche accenno riguardo alla vita di Holley: è nato in Alabama 73 anni fa, e ha cominciato a occuparsi d’arte negli anni ’70 creando sculture con oggetti riciclati, trovati nei cortili di Birmingham o magari nelle discariche della città; si è in seguito occupato di pittura e di fotografia, e ha tuttora diverse opere esposte nei musei americani. Il suo debutto nella musica è arrivato nel 2012, quando aveva quindi 62 anni, e questo “Oh Me, Oh My” è il suo settimo album che segue di due anni “Broken Mirror: A Selfie Reflection” pubblicato a doppio nome con quel geniaccio Matthew E. White.
Ascoltandolo per la prima volta mi sono venuti in mente due nomi: Terry Callier per primo, ma solo perché ho scoperto anch’egli tardissimo e non riesco a comprendere come possa essermi fatto sfuggire un universo così variegato e sorprendente; Scott Gil Heron per secondo, giacché lo spoken word è un elemento molto presente in questo lavoro, prodotto da quel Jacknife Lee che ha all’attivo collaborazioni con R.E.M, appunto, U2, The Cure ed anche incursioni nel Pop d’autore di Taylor Swift. “Oh Me, Oh My” sorprende soprattutto perché non c’è un brano che assomigli a un altro degli undici che lo compongono, e perché è un’opera ambiziosa, coraggiosa, geniale e totalmente anti-commerciale: l’iniziale “Testing” mette subito le cose in chiaro con il primo verso Here we are, testing our abilities, ed è un canto emozionante e profondo su tre semplici accordi di pianoforte e una nube sonora di synths.
La successiva “I am a part of the wonder” (prima delle due canzoni in cui Moor Mother è ospite) è uno strano e ammaliante mix fra ritmi afro e atmosfere nu jazz, e la title track (è questa la traccia che vede il discreto e poco invasivo contributo di Stipe) è una composizione minimale su cui la splendida voce di Holley si avvita in qualcosa di simile al Gospel. Gli oltre quattro minuti di “Mount Meigs” ricordano le follie noise jazz di alcuni lavori di John Zorn, mentre “Kindness will follow your tears” con Bon Iver è l’episodio più etereo e sognante del disco, con chitarre elettriche e tastiere a fare da tappeto al falsetto di Justin Vernon e alla voce black di Holley.
La magnificenza di “None of us will have but a little while”, con i delicati vocalizzi di Sharon Van Etten, farebbe sciogliere il cuore a chiunque, e la conclusiva “Future children”, che ricorda il Philip Glass di “Einstein on the beach”, mettono il punto a un disco difficile, complesso, monolitico, che sicuramente ha bisogno di concentrazione, di tempo e di diversi ascolti per riuscire a conquistare l’ascoltatore; ma una volta che sarete entrati in questo mondo, e magari lo ascolterete leggendo i testi, sono convinto che non lo abbandonerete più.
Articolo di Michele Faliani
Tracklist “Oh Me, Oh My”
- Testing
- I Am A Part Of The Wonder
- Oh Me, Oh My
- Earth Will Be There
- Mount Meigs
- Better Get The Crop In Soon
- Kindness Will Follow Your Tears
- None Of Us Have But A Little While
- If We Get Lost They Will Find Us
- I Can’t Hush
- Future Children
Lonnie Holley on line:
Official site: https://www.lonnieholley.com
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