Il problema è che Peter Gabriel, negli anni, ci ha abituato bene. Troppo bene. Il suo pubblico è giustamente esigente. Così, un bell’album, come questo “I/O”, uscito per Real World il 1 dicembre, rischia di ottenere più critiche che elogi. La colpa è solo del musicista inglese, non certo di questo bel lavoro. Scherzi a parte, una verità c’è. Gabriel, dopo l’avventura con i Genesis, epoca d’oro che, per molti, è l’unica valida per il grande gruppo inglese, ci ha regalato un album sempre diverso dagli altri. Difficilmente si è ripetuto. Fino ad arrivare al picco della sua attività creativa, e cioè “So”, album pluricelebrato, anche grazie a una delle prime riproposizioni live integrali, in occasione del suo compleanno, e soprattutto “Us”. Lavoro, lo confesso, del quale sono dipendente: lo devo ascoltare almeno una volta al mese, altrimenti vado in astinenza.
Dopo una lunga carriera fatta di sperimentazioni, arriva a distanza di 13 anni dall’ultimo album in studio, e cioè “Up”, dal quale si generò un tour magnifico, questo “I/O”. L’attesa era tanta, come le aspettative. Lo ribadisco subito, per fuorviare i dubbi: si tratta di un bell’album, gestito e promosso in modo innovativo, ma di fatto Gabriel ci regala quanto già abbiamo ascoltato in passato. Questo vuol dire sminuire il suo lavoro? No, semplicemente prendere atto che Gabriel, come tanti artisti del suo calibro, e vedremo subito il perché, ha messo mano al suo archivio, e ha pescato perle rimaste nei cassetti. Il perché, credo sia evidente, e il 2023 ce lo ha reso chiaro. Alla fine dei conti, like, visualizzazioni, download, e vittorie al Festival di Sanremo con tour in giro per il Mondo, non fanno la differenza. L’industria discografica, se vuole vivere, deve vendere. Come tutte le aziende.
Allora serve mettere in campo chi sa vendere: Rolling Stones, CCCP, Guccini, Roger Waters, Peter Gabriel, scomodando anche i Beatles, per fare qualche nome. O si tirano fuori live epici, o rimasugli da manomettere, o fondi di magazzino, oppure non resta che far torto o subirlo, citando il buon Alessandro Manzoni. Perché, se ne prenda atto, chi compra i dischi o i cd, in varie edizioni, non è certo il pubblico che segue le vicende dei reggiseni che calano, come per magia, mentre si suona il basso. Così i dinosauri tornano a popolare la terra, e lo fanno al meglio, e cioè con ciò che sanno fare bene. Ecco, Gabriel, a 73 anni, torna in scena, e lo fa, sapendo di avere un album non potentissimo, ma ottimo, e quindi si affida a una nuova strategia di promozione. Di fatto, a ben vedere, innova ancora una volta.
Prima pubblica singoli seguendo le fasi lunari. Poi decide di andare in tour prima che esca il nuovo album. In questa serie di concerti – la nostra recensione – spiazza per due motivi: il primo riguarda la sua forma fisica, voce perfetta, ma presenza statica, come è giusto che sia a 73 anni; poi proponendo una scaletta che è, di fatto, quasi tutta infarcita di pezzi inediti, o prodotti negli anni di silenzio editoriale. Infine, uscendo con un disco – in vari formati e colori – che contiene 12 inediti, con tre versioni: il Bright-Side Mix curato da Mark “Spike” Stent e il Dark-Side Mix, a cura di Tchad Blake, e infine un terzo, l’In-Side Mix, realizzato in audio spaziale Dolby Atmos, da Hans-Martin Buff. I collezionisti sono accontentati, perché c’è la solita abbuffata di edizioni, messe in commercio sotto Natale, e per gli altri… beh, per quelli c’è sempre Spotify. Questo pubblico, a conti fatti, non interessa più di tanto alle case discografiche. Lo dimostra il fatto che, appena esce il disco del dinosauro di turno, si ristampa ogni cosa, in vari colori.
Nel dettaglio, questo lavoro vede, per quanto ho ascoltato, un solo singolo che potrebbe essere figlio di questa epoca, e non a caso apre l’album, e cioè “Panapticom”, brano che è un evoluzione di quanto prodotto in “Up”. Le due versioni sono leggermente diverse. Il Bright-Side Mix è ricco di suoni; il Dark-Side Mix profuma di demo, di produzioni fatta in casa sulle vecchie cassette. Brano summa del Gabriel elettronico, della world music, e attento osservatore della realtà che ci circonda.
A seguire due ottime canzoni, ma che profumano, quanto meno nella versione Bright-Side Mix, molto di “Up” e di “Us”, soprattutto “The court”. Le percussioni, e la costruzione armonica, è pari pari a quella dell’album di 13 anni fa. “Playing For Time”, e già dal vivo me ne resi conto, richiama molto, come struttura, “Washing of the Water”. Anche se il rimando più evidente è “Road To Joy”, sulla quale potete tranquillamente canticchiare tutto il testo di “Kiss That Frog”, brano centrale in “Us”, con tanto di pause. La title track è figlia, che mood, di qualche anno fa, anche se certamente rimaneggiata di recente, soprattutto per alcuni temi trattati, ma rimano comunque un rimando al Gabriel della sua prima produzione. Come d’altronde “Olive Tree”, per la quale c’è anche un inizio che richiama il mondo musicale dell’amico Collins. Anche se poi Gabriel dimostra di avere ancora ottime frecce nella faretra della sua voce.
L’album, poi, si chiude con “Live And Let Live”, brano sul quale, come sempre accade nei lavori di Gabriel, c’è la summa del disco. Pensate a tutte le canzoni con le quali ha chiuso gli altri lavori, e vedrete che è così. Come per “Panapticom”, emerge chiaro che questa canzone è figlia di pensieri e composizioni più recenti. Di fatto, sono le due tracce che non rimandano a nulla di quanto già proposto in passato. In generale, solo per dovere di cronaca, il Dark-Side Mix è come se fosse la prima scrematura della canzoni. L’idea è buona, vedere come evolve, o involve (in alcuni casi), una canzone. Gabriel ci ha fatto entrare, con questa strategia, nella sua fucina, e questo è un altro merito del lavoro in questione. In sintesi estrema, I Bright-Side Mix sono le canzoni vestite a festa, dove la ricchezza sonora è determinante; il Dark-Side Mix sono le canzoni un poco più spoglie, ed emergono meglio le linee ritmiche.
A conti fatti, l’album è ottimo, ed è una bella raccolta – una volta si diceva così – del Gabriel che conta. Che siano canzoni rimaste in frigorifero, o negli archivi, e messe in un lavoro nuovo, anziché a completamento di edizioni extended o immersion, è cosa buona e giusta. Che Gabriel non debba dimostrare nulla a nessuno, è altrettanto cosa buona giusta. Come d’altronde è altrettanto corretto non gridare al miracolo solo perché ci si chiama Peter Gabriel. D’altronde, non ricordo nessuno che lo elogiò per i progetti “Scratch My Back” del 2010, album di cover, con un concerto spaesante all’Arena di Verona (per me c’era un clone sul palco…), e “New Blood” del 2011 (evito di commentare i live di quel periodo).
“I/O” è un ritorno utile a tutti, casa discografica, catalogo di Gabriel e fan compresi, per cancellare quei due ultimi lavori, e rimettere le cose a posto con un’opera alla Gabriel, suonata e arrangiata con lo storico staff che lo segue da anni, e cioè David Rhodes alle chitarre e Manu Katché alla batteria, oltre all’immancabile Tony Levin al basso. A questi si sommano molti altri musicisti, che arricchiscono il lavoro, tra i quali la figlia Melanie, Brian Eno e Paolo Fresu, e vi lascio scoprire dove e come.
C’è da dire che se i due collaborassero davvero, per un album, ne uscirebbe un capolavoro.
Articolo di Luca Cremonesi
Track list “I/O”
- Panapticom
- The Court
- Playing For Time
- I/O
- Four Kinds Of Hours
- Road To Joy
- So Much
- Olive Tree
- Love Can Heal
- This Is Home
- And Still
- Live And Let Live