Giacomo Giunchedi, musicista e producer abruzzese di base a Bologna, in arte Sacrobosco, il 6 ottobre ha presentato “IXVXI”, edito da Trovarobato, secondo capitolo di un dittico che si era aperto con “IVXVI”. Anticipato il 14 settembre dal singolo “Higher”, il nuovo lavoro di Sacrobosco conferma le attese, prosegue nel solco di quanto fatto con il primo album, e si candida per essere uno degli ottimi dischi usciti quest’anno. Allo stesso tempo, questa nuova produzione pone una questione che ritengo essere decisiva. È chiaro ormai che c’è un ecosistema elettronico popolato da giovani musicisti. Sarebbe ora che questi cominciassero a fare fronte comune.
Partiamo da qui. L’esperienza elettronica non è mai stata una scena maggioritaria in Italia. Fin dagli anni ’70’. In linea di massima, questo aspetto è un bene. Ciò che resta carsico, chiuso in un ecosistema, in questa Italia, quanto meno riesce a salvarsi dal trita tutto del mercato. Tuttavia, questa esperienza è sempre più destinata a scendere in profondità, quasi negli abissi, per poter esistere. Come accadde a Dante: perché il viaggio avesse un senso, e si potesse alla fine ascendere al Paradiso, serviva arrivare nella parte più bassa dell’Inferno. Per uscire a rivedere le stelle. È altrettanto vero, però, che si potrebbe anche evitare tutta questa fatica, dato che ormai una scena c’è, è presente e comincia ad non esser più un fenomeno carbonaro.
Tradotto: perché la scena elettronica italiana non si unisce in una social catena, di leopardiana memoria, e inizia davvero a fare la differenza? Il materiale non manca. Gli artisti neppure. Invece sembra che si voglia destinare e condannare questa scena a rimanere nel mondo sotterraneo. La si vuole frammentario. Fatta da schegge isolate. Qua e là presenti, senza unità d’intenti. Divide et impera, si sarebbe detto un tempo. Tienili divisi, così non si perdono posizioni. In questo modo, si lascia in mano il tutto a chi impera e imperversa.
Sacrobosco è un altro di questi artisti, uno che dimostra grande capacità nel creare mondi. Il suo lavoro, parlo del secondo volume uscito in ottobre, e cioè “IXVXI”, fa vivere all’ascoltatore mondi sonori degni del miglior Moebius, il grande illustratore. Ambienti onirici, spazi profondi, galassie da esplorare. Il tutto, però, in un tempo troppo breve. Non dico che servano le grandi galoppate del Progressive dei tempi d’oro, ma neppure la perfidia di regalarci pillole di bellezza in tempi troppo brevi. Serve, insomma, superare la dimensione canzone, trascendere quell’imperativo per andare oltre. Sono convinto che tanti comincerebbero a seguire la rotta.
Entriamo dentro a “IXVXI”. “Peculiar”, seconda traccia delle otto che compongono l’album, è un funky e nu-soul che crea dipendenza. Va detto subito che, come capita ad altri suoi colleghi, in questo lavoro non ci sono solo campionature. Gli strumenti suonati ci sono, e si fondono bene insieme con tutto quanto serve per fare elettronica. Tornando alla traccia in questione, va detto che è molto bella, intensa, e lascia ampi spazi di manovra al pensiero: non chiude e non paralizza l’ascoltatore. Quando, però, il mondo inizia a svilupparsi, e la mente entra nei suoi meandri sonori, la canzone si interrompe. Troppo breve, la bellezza deve essere gustata con lentezza, senza fretta. Spero che quanto scritto non venga letto come una stroncatura, perché non è questo il senso. “Neverleave” richiama le produzioni dei Deproducers, con suoni elettronici presi da mondi sonori differenti, il tutto condito con un incedere industrial (solo accennato) che si manifesta nell’ossessivo ripetersi di alcuni passaggi.
Il singolo “Higher” mi porta all’unica vera critica, pur se velata, che mi sento di rivolgere ad un lavoro che, una volta messo in play, segue e insegue l’ascoltatore senza sosta. Si ha voglia di ascoltare, riascoltare, far partire di nuovo il tutto. “Higher” è una composizione semplice, basata su un ritornello ripetitivo, martellante quasi quanto il suono del telefono di “C’era una volta in America”. Pur se il risultato dell’insieme è interessante, il pezzo mi ha ricordato ambienti troppo lounge, caffè eleganti, dove anche lo spritz sembra troppo perfetto per essere bevuto senza cannuccia.
“Ghosting” fa subito recuperare il tempo perduto. Non che si sia buttato del tempo con la traccia precedente. No. Qui si tratta di Proust. Il senso di quanto affermo è che questa traccia riaccende, come la madeleine nell’opera del grande autore francese, un passato ormai dimenticato: il miglior Vangelis. Più la ascolto e più vi trovo un omaggio ad un album germinale: “Albedo 0.39”. “Resistance” ha il sapore, bello, del miglior Battiato degli anni ’70 mescolato però, con sapienza, con la Björk che tanto ha sconvolto, a Milano, falsi puristi della sua musica. Volutamente lascio fuori tre brani, non perché non mi siano piaciuti, ma perché si muovono fra questi mondi sonori. Anzi, vale la pena spendere ancora due parole anche su “Talcoat”, composizione che avrebbe fatto bella figura in “Blade Runner”. Ascoltata ad alto volume produce visioni che rimandano al mondo cyberpunk.
Insomma, promosso a pieni voti questo nuovo album di Giacomo Giunchedi. L’unico difetto, l’ho già detto, è che il disco vola letteralmente via troppo presto. Certo, è un dittico, quindi mettendo insieme i due album, arriviamo a poco più di un’ora e quarto di musica. Non è male, ma è troppo poco per fare la rivoluzione, per sradicare ciò che ormai è diventato infestante: il commerciale.Queste esperienze musicali avrebbero bisogno di uno sviluppo maggiore, di spazio, praterie, fiumi in piena, oceani mossi. La musica elettronica dei giovani artisti italiani è davvero l’unica avanguardia che abbiamo nel nostro Paese, in questo momento storico.
Serve coraggio per andare oltre la dimensione della canzone. Serve coraggio, per comporre liberi da schemi che, pur se con suoni nuovi, vengono riprodotti, senza mutare così l’essenza del gioco. Per ovviare a questo rischio, ormai reale, la scena elettronica italiana dovrebbe, ad esempio, far tesoro del mondo del Progressive, liberandolo dalla morsa dominante dell’universo Metal. Giacomo Giunchedi è sulla buona strada aperta da IOSONOUNCANE e, in questi mesi, da Daniela Pes. Poi, va ricordato, questi musicisti vanno ascoltati anche dal vivo, dimensione dove, solitamente, danno il meglio di sé perché, per sua composizione, questa musica accade e prende corpo nel suo farsi.
Anche sotto questo punto di vista, Giunchedi credo proprio che possa contribuire a fare la differenza. “IXVXI” è stato composto, suonato, registrato e prodotto da Giunchedi nel suo home studio, mixato insieme a Roberto Rettura presso Lo Studio Spaziale di Bologna, e masterizzato da Matilde Davoli presso Sudestudio di Guagnano a Lecce
Articolo di Luca Cremonesi
Track list “IXVXI”
- Heat
- Peculiar
- Neverleave
- Higher
- Ghosting
- Resistance
- Talcoat
- Sic
Composto, suonato, registrato e prodotto da Giacomo Giunchedi nel suo home studio. Mixato da Giacomo Giunchedi e Roberto Rettura presso Lo Studio Spaziale di Bologna. Masterizzato da Matilde Davoli presso il Sudestudio di Guagnano