Il 2024 ci regala un gradito ritorno, e cioè quello di Thomas Frank Hopper, chitarrista e cantante belga, che è sì uscito in patria, con il disco, auto prodotto, sul finire del 2023, ma che in Italia, però, è giunto, grazie a VREC Music Label, in gennaio. Così come fu per il primo album, uscito due anni fa, e portato nel Belpaese sempre dall’etichetta veneta. Matura Thomas Frank Hopper, e lo fa con grande consapevolezza di mezzi e di padronanza del genere, quel Rock contaminato da Blues, e dall’organo Hammond.
Matura, si diceva, perché non si accontenta, come tutti i grandi artisti, di rifare bene il compito. Il primo lavoro era un album grezzo, ma proprio per questo straordinariamente bello, potente, e figlio di una sacra tradizione che pesca dalle sponde del Mississipi per arrivare al cuore pulsante dell’Europa. Un mood, quello del primo lavoro, decisamente figlio del Blues e dei Led Zeppelin, mentre qui, in queste dieci nuove tracce, ci si muove in territori più ampi.
La prima nota positiva è che in questo album l’artista arricchisce la sua gamma sonora, non tanto perché aggiunge l’Hammond, che già di suo è un mondo sonoro a parte, ma perché ogni brano sembra davvero nato separato dagli altri. Non che non ci sia continuità. Sarebbe un errore scriverlo, e anche solo pensarlo. Thomas Frank Hopper mantiene fede agli intenti della prima traccia: batteria molto pulita, martellante, chitarra in primo piano, e voce sempre sparata alta. Tuttavia, c’è più varietà rispetto all’album di debutto, che brillava proprio perché compatto. Qui, in “Paradize City”, c’è il Blues, c’è il Rock Made in USA e in UK, ma c’è anche il Prog e qualche tinta, qua e là, che profuma di Funk.
In sostanza, la ritmica pesante che ha sostenuto il primo lavoro, e che dava quella compattezza sonora che lo rendeva un album davvero molto interessante, qua si spezza ogni tanto, per far posto, per esempio, all’organo, o alla chitarra, più autonoma che nel disco di due anni fa. Il risultato è un album che diverte nell’ascolto perché spazia nella contaminazione. Questo il grande pregio di “Paradize City” e di Thomas Frank Hopper, che dimostra una assioma fondamentale: per fare buona musica non serve per forza sperimentare. La si può fare partendo da quello che c’è (stato), e lavorarci sopra.
“Troublemaker” è una traccia rock che potrebbe derivare dalle session del primo lavoro, forse scartata perché non stava nei ranghi di quel mondo sonoro. Qui, invece, di certo rimaneggiata, detta invece la linea, soprattutto per quanto riguarda la batteria, che appare subito secca, asciutta e decisiva. “Tribe” è un pezzo a matrice blues, pur se devo dire che è l’ultimo che ho apprezzato, perché il finale rallentato lo rende decisamente poco consono alle mie orecchie. Di certo piacerà, ma devo dire che sono classico: preferisco i pezzi che finiscono con la chiusa della batteria, o con la chitarra che stacca all’improvviso. “A song for the Devil” è uno dei brani migliori, con un inizio quasi marittimo, con la chitarra che simula il suono di una sirena. La batteria sembra pescata direttamente dalla strada, e il riff della chitarra ha quel che di magico che hanno i giri di accordi che non si chiudono. Credo che la miglior spiegazione di quanto detto l’abbia data Page nel documentario “It Might Get Loud”. A quello vi rimando.
“Chimera” è un brano prog, accelerato, dove l’Hammond fa da contro altare a una batteria martellante che gioca con la chitarra. La voce di Hopper, mi sia concesso, è uno splendore per potenza, soprattutto nella fase acuta, ma anche quando tende verso il basso. Un brano ricco, sotto tutti i punti di vista. “Paradize City”, traccia che dà il nome all’album, è ritmata quel giusto per diventare un pezzo da ballare, se ancora questa musica la si ascoltasse nelle sale da ballo un po’ più che di m…, come cantavano i CCCP. Il Blues torna padrone della scena in “Back to the Wild”, altro brano che forse arriva dalla lavorazione del primo disco. In questo caso, credo che ci sia stato poco da sistemare, perché si tratta di una canzone che funziona in modo perfetto, anche solo con la chitarra (provate… o, come nel mio caso, se non sapete andare oltre “La Canzone del Sole”, fatevela suonare da un amico chitarrista).
La ballad non può mancare, con sapore di saloon, ma anche di strada asfaltata, baciata dal sole, che corre lontana. “Dog in an Alley” ci fa riposare, prima del gran finale che, per quanto mi riguarda, è tutto contenuto in “April Fool”. Canzone perfetta, dove il mix e l’insieme seminato nelle tracce precedenti si tiene bene insieme: dai Deep Purple ai Rolling Stones, passando per la grande tradizione del Blues nero. Il tutto distorto quel tanto che basta per non farne un brano alla Angus, ma neppure caldo e morbido come se fosse uscito dalle dita di un afroamericano. La sintesi perfetta di un album che ha ancora due cartucce da giocare, e cioè “Crossroads”, Blues grasso, che puzza di fumo e di sguardi torvi; e “Boundless”, che ci riporta nel Prog, ma un poco anche al Pop, e forse un po’ fuori quota rispetto al resto del lavoro.
Un disco che fa progredire Hopper, e lo mette sul percorso giusto per tenere le redini, con altri nomi, di un genere che, soprattutto in Europa, non accetta di essere messo in sordina.
Articolo di Luca Cremonesi
Track list “Paradize City”
- Troublemaker
- Tribe
- A Song for the Devil
- Chimera
- Paradize City
- Back to the Wild
- Dog in an Alley
- April Fool
- Crossroads
- Boundless
Line up: Thomas Frank Hopper voce, chitarra lapsteel / Diego Higueras chitarra / Jacob Miller basso cori / Nicolas Scalliet batteria / Maxime Siroul organo Hammond